La remunerazione arm’s lenght di taluni servizi infragruppo – commento a CTR Lombardia, sez. 3, sentenza 8 aprile 2021, n. 1373/3/2021

1 Giugno 2021

La Commissione tributaria regionale della Lombardia (“CTR”), con la sentenza in commento, fissa due importanti principi in tema di transfer pricing.

In primo luogo, viene ribadito che i servizi resi da un soggetto terzo indipendente direttamente nei confronti di una società del gruppo residente all’estero – con l’intervento dell’impresa italiana associata, che svolge la funzione di service provider, in qualità di mera “intermediaria” tra l’utilizzatrice del servizio e l’impresa terza prestatrice – non danno luogo a maggiori corrispettivi intercompany, se la service provider medesima si limita a riaddebitare il solo costo del servizio, senza l’aggiunta del margine di ricarico (c.d. “mark-up”) pattuito tra le consociate.

In secondo luogo, i giudici di appello affermano che nel caso di un contratto di tesoreria accentrata (o “cash pooling”) tra le società del gruppo, i presunti interessi attivi, in considerazione del saggio di remunerazione riconosciuto alla società italiana per i trasferimenti di liquidità effettuati verso la consociata straniera, non sono da considerare come componenti positivi di reddito.

La vicenda trae origine da alcuni avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Milano, nei confronti di una società residente fiscalmente in Italia e appartenente a un gruppo multinazionale. In particolare, l’Ufficio contestava, ai fini IRES e IRAP, la sussistenza di corrispettivi per prestazioni di servizi a favore di un ente correlato non residente inferiori al valore normale[1], in violazione dell’articolo 110, comma 7, del testo unico delle imposte sui redditi di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“T.U.I.R.”). Inoltre, veniva recuperato a tassazione IRES una maggiore base imponibile, quali presunti maggiori proventi – interessi attivi – derivanti da un accordo qualificato dalle parti infragruppo come “zero balance cash pooling”.

Il giudice di prime cure accoglieva il ricorso della società per quanto riguarda il primo rilievo, respingendo il secondo. Con atto di impugnazione, l’Agenzia delle Entrate impugnava la sentenza emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Milano.

La società italiana era stata costituita per fornire alle consociate alcuni servizi di supporto all’attività d’impresa, in applicazione di specifici accordi contrattuali stipulati con le varie società. Il compenso per i servizi prestati veniva calcolato in base ai principi contabili adottati dalla società e comprendeva, senza alcuna limitazione, tutti i costi, diretti e indiretti, sostenuti nella prestazione dei servizi alla consociata di diritto estero e alle affiliate locali, ivi compresi i costi per il personale, le trasferte, l’ammortamento delle attrezzature, le spese pagate a terzi e tutte le spese generali. La medesima società emetteva periodicamente una fattura per i compensi per i servizi forniti, aggiungendo un mark-up del 5% ai costi sostenuti nel mese in questione. Il ricarico non veniva applicato ai costi di terzi o ai riaddebiti (c.d. “pass-through”). Viceversa, sui servizi resi da soggetti terzi, autonomi e indipendenti, a beneficio della consociata estera, la società italiana addebitava solo i costi, senza applicare il predetto mark-up.

La CTR, riprendendo le Linee Guida dell’OCSE sui prezzi di trasferimento[2], osserva che la società, operando come mera intermediaria tra il fruitore del servizio e l’impresa terza prestatrice, ha agito in modo corretto addebitando alla propria consociata soltanto il costo a essa fatturato dal soggetto terzo indipendente, senza applicare alcun ricarico, e ciò in quanto essa non ha apportato alcun valore aggiunto al servizio medesimo. Le stesse Linee Guida dell’OCSE, sul punto, precisano peraltro che non devono essere considerati servizi infragruppo “le attività intraprese da un’entità del gruppo che duplicano semplicemente un servizio che un’altra entità del gruppo già svolge per sé stessa, o che le è fornito da un terzo[3].

Per quanto riguarda, invece, le presunte anomalie riscontrate dall’Amministrazione finanziaria con riguardo alla misura del saggio di remunerazione riconosciuto alla società italiana, in relazione all’accordo di cash pooling stipulato con la consociata estera, la Corte si sofferma sull’analisi della natura di tale tipologia contrattuale.

Gli accordi di cash pooling sono rapporti di tesoreria accentrata efficaci per il mantenimento e la gestione della liquidità, nonché per l’approvvigionamento delle subsidiaries (“cash pool participants” o “CPP”) dei gruppi multinazionali, posti in essere allo scopo di ottimizzare la gestione della liquidità all’interno del gruppo. In particolare, la peculiarità di un rapporto di cash pooling è il periodico spostamento dei saldi bancari dalle società periferiche verso il conto bancario dell’unità centrale o centro di tesoreria di gruppo (c.d. “master account”). Al fine di porre in essere un accordo di cash pooling, dunque, le società partecipanti delegano a una società del gruppo (“cash pool leader” o “CPL”) la gestione della tesoreria del gruppo medesimo. Quest’ultimo, a sua volta, crea un conto corrente bancario (il master account, per l’appunto) dove far confluire tutti i movimenti che interessano le posizioni di conto corrente delle singole società. Contestualmente, il CPL stipula con i CPP contratti di conto corrente non bancario, così da giustificare le singole posizioni di debito e credito derivanti dalla movimentazione della liquidità dai singoli conti correnti al ridetto master account

Nel caso di specie, l’accordo stipulato tra la società italiana, CPL, e la sua consociata residente all’estero, CPP, è stato dalle parti qualificato come zero balance cash pooling (“ZBS”). Esso è un particolare tipo di contratto di tesoreria accentrata rientrante nella più ampia categoria dei “physical cash pooling”, caratterizzato dall’azzeramento, alla mezzanotte di ogni giorno, del saldo di conto corrente bancario dell’impresa partecipante mediante il suo riversamento sul conto corrente centralizzato del CPL.

Le singole operazioni di addebitamento/accreditamento danno luogo alla maturazione di interessi infragruppo sulla base di tassi di interesse concordati previamente tra le parti, in genere basati sui tassi in vigore per i rapporti di conto corrente.

Pertanto, le caratteristiche principali di detto accordo, tra cui l'assenza dell'onere restitutorio delle rimesse attive, la reciprocità delle stesse, nonché l'inesigibilità e indisponibilità del saldo del conto corrente fino alla chiusura dello stesso, concorrono a qualificare l'accordo negoziale secondo caratteristiche non riconducibili a un prestito di denaro nel rapporto fra le società del gruppo – con conseguente impossibilità di applicare alle suddette operazioni infragruppo i tassi di interesse propri di un’operazione di finanziamento[4].

Nella pronuncia in commento, la CTR, dopo aver sostenuto che, in via generale, il contratto di cash pooling debba rientrare nella categoria dei contratti atipici, di cui all’art. 1332 del codice civile – non potendo essere assimilato né al contratto di deposito bancario, di cui all’art. 1834 c.c., né a quello di finanziamento (mutuo), ex art. 1813 c.c. – arriva a concludere che, nel caso concreto, “il contratto di tesoreria accentrata/cash pooling (…) deve essere qualificato come tipico del conto corrente perché a differenza del mutuo prevede la restituzione delle somme non alla scadenza del finanziamento, ma secondo i dati di tesoreria; inoltre esso è ontologicamente strutturato per le finalità di un gruppo di imprese ed ha lo scopo di evitare che talune di esse debbano ricorrere al credito esterno quando invece le disponibilità di cassa sono esistenti in seno alla consociata; basta leggere le singole clausole dello stesso per comprendere che sono incompatibili con il contratto di mutuo; inoltre il tasso di remunerazione applicato va visto non in relazione ai tassi passivi ma alla redditività del denaro che in quel periodo storico era pressoché zero se non addirittura negativa”.

Per tale ragione, stante l’illegittimità della comparazione effettuata dall’Ufficio tra il tasso di interesse specificamente previsto nel contratto de quo e quelli minimi praticati dagli istituti bancari italiani sui depositi di durata annuale, il collegio ha ritenuto i tassi praticati dalla società italiana in linea con i prezzi di mercato.

La sentenza in oggetto si fa apprezzare per la puntuale analisi della disciplina domestica sui prezzi di trasferimento, arrivando alle conclusioni più logiche e coerenti con l’impianto normativo elaborato in sede OCSE.

RC


[1] Così come disciplinato dall’art. 9, co. 3, del T.U.I.R..

[2] Secondo cui quando un’impresa associata agisce solo in qualità di agente o intermediario nella fornitura di un servizio, è importante, se si applica un metodo basato sul costo, che il margine di utile sia appropriato alle funzioni di agente piuttosto che alla prestazione dei servizi stessi. In tal caso, infatti, non si deve determinare il prezzo di libera concorrenza applicando un margine al prezzo di costo dei servizi, ma ai costi delle funzioni stesse di agenzia, essendo possibile che il valore di mercato dei servizi infragruppo non ecceda i costi sostenuti dal fornitore del servizio. (cfr. OECD (2017), OECD Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administration 2017, OECD Publishing, Paris, cap. VII, par. 7.34-7.36)

[3] Cfr. OECD (2017) OECD Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administration 2017, cap. VII, par. 7.11.

[4] Del medesimo avviso è, peraltro, la stessa Agenzia delle Entrate. Si vedano, in proposito, la circolare 17 marzo 2005, n. 11/E e la risoluzione 27 febbraio 2002, n. 58/E.

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