Sempre possibile la rettifica delle fatture con cui sia stata addebitata l’IVA per un’operazione non imponibile, se il contribuente dimostra la sua buona fede – Commento a Sentenza CGUE del 18 marzo 2021 (Causa C-48/20)

23 Giugno 2021

Abstract

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha espresso il principio per cui laddove un soggetto passivo IVA, in buona fede, abbia ritenuto imponibile un’operazione in realtà esente, non può negarsi a quest’ultimo il diritto di rettificare le fatture sulle quali sia stata indebitamente esposta l’IVA. Ciò, anche nel caso in cui sia già stato avviato un procedimento di verifica fiscale.

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1.    Il caso esaminato dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea ("CGUE") riguarda una società di diritto lituano (P.) che forniva a società di trasporto connazionali carte carburante idonee all’acquisto di combustibile presso alcune stazioni di servizio site in Polonia. La P. riteneva che la propria attività commerciale consistesse nell’acquisto del carburante (con assolvimento dell’imposta a monte) e nella sua successiva rivendita per mezzo delle predette carte: ragion per cui emetteva alle citate società di trasporto fatture di cessione di carburante con addebito dell’IVA.

Sennonché, all’esito di un accertamento fiscale l’Amministrazione finanziaria polacca riteneva che l’effettiva attività della P. fosse più propriamente riconducibile a un mero finanziamento dell’acquisto di carburante da parte delle società di trasporto, esercitato per mezzo delle carte carburante. Tale attività sarebbe, quindi, configurabile nei termini di un servizio finanziario, esente da IVA in Polonia. Da ciò discenderebbe, in primo luogo, l’esclusione del diritto della P. alla detrazione dell’IVA versata a monte; ciononostante, l’Ufficio polacco riteneva la società obbligata per l’importo dell’IVA indicato nelle fatture da essa emesse.

Nell’ambito del contenzioso domestico, il giudice del rinvio rilevava che la società aveva comunque indicato l’imposta nelle fatture e che tale fatto era di per sé sufficiente a determinarne la qualifica di soggetto passivo ai fini IVA, in forza dell’art. 203 della direttiva 2006/112/CE (“direttiva IVA”). Nondimeno, veniva riconosciuta la buona fede della ricorrente e l’assenza di una perdita di gettito fiscale. Per questi motivi, il giudice del rinvio sottoponeva alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità con i principi di neutralità e proporzionalità IVA della preclusione - prevista dalla normativa polacca - alla possibilità di operare la rettifica dell’imposta indebitamente indicata in fattura a seguito dell’avvio dell’accertamento fiscale.

2.   La Corte di Giustizia parte dal presupposto, reso esplicito dalla nota sentenza EN.SA.[1], per cui l’IVA indicata in fattura è dovuta dall’emittente anche in assenza di una qualsiasi operazione imponibile reale. Tuttavia, tale principio generale deve essere contemperato con i criteri di neutralità e proporzionalità. Riguardo al primo, la Corte rileva che la direttiva IVA non contiene alcuna disposizione relativa alla regolarizzazione dell’IVA indebitamente fatturata: perciò spetta agli Stati membri contemplare, nel rispettivo ordinamento interno, strumenti che consentano la rettifica di ogni imposta indebitamente fatturata, nei casi in cui l’emittente dimostri la propria buona fede. Quanto al principio di proporzionalità, la Corte riafferma la propria impostazione consolidata per la quale gli Stati membri, nel prevedere a carico dei soggetti passivi ulteriori oneri volti ad assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare le frodi, non debbano eccedere quanto necessario per raggiungere tali obiettivi e, in ogni caso, non debbano adottare provvedimenti idonei a scalfire il principio di neutralità.

Sull’assunto per cui la buona fede della società sarebbe confermata dall’esistenza di una prassi delle autorità polacche di considerare come operazioni a catena, soggette ad imposta, tutte quelle in cui più operatori intervengono nella filiera di rifornimento di carburante – anche nei casi in cui sia rilevabile effettivamente una sola cessione fisica di beni – la Corte ritiene che il rifiuto di concedere la rettifica delle fatture emesse dalla società, per il solo fatto dell’intervenuto avvio dell’accertamento, avrebbe comportato per la contribuente un onere fiscale eccedente i principi di neutralità e proporzionalità dell’IVA. Da ciò consegue l’incompatibilità della normativa polacca de qua con i predetti principi generali dell’ordinamento europeo. Secondo la Corte, infatti: “L’articolo 203 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, e i principi di proporzionalità e di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, a seguito dell’avvio di un procedimento di verifica fiscale, non consente al soggetto passivo in buona fede di rettificare fatture sulle quali sia indebitamente esposta l’IVA, quando invece il destinatario di tali fatture avrebbe avuto diritto al rimborso di detta imposta se le operazioni oggetto di tali fatture fossero state debitamente dichiarate”.

3.   Giocoforza, è opportuno domandarsi come l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia possa incidere sull’ordinamento interno in subiecta materia. Appare lampante come la sentenza in commento si inquadri, invero, in un filone della giurisprudenza europea (in cui si colloca, fra le altre, anche la recente sentenza 15 aprile 2021, Grupa Warzywna Sp. z o.o., resa in esito al giudizio C‑935/19) dalla cui lettura complessiva è possibile rinvenire strumenti idonei a scalfire la rigidità dell’impianto normativo italiano sul tema delle operazioni fatturate anche se non imponibili.

Com’è noto, a seguito dei recenti interventi normativi[2] che hanno interessato il D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, è stato modificato l’art. 6, comma 6, recante la disciplina delle sanzioni previste per indebita detrazione dell’imposta sul valore aggiunto. All’originaria previsione contenuta nel primo periodo (comportante l’applicazione della sanzione proporzionale pari al 90% dell’importo indebitamente detratto), è stato affiancato un ulteriore inciso per cui: “in caso di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi degli articoli 19 e seguenti del decreto dei Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, il cessionario o il committente anzidetto è punito con la sanzione amministrativa compresa fra 250 euro e 10.000 euro. La restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale”. All’indomani della riforma, sono intervenute autorevoli prese di posizione[3] indirizzate a chiarire la portata applicativa della disposizione appena introdotta. L’interpretazione fornita in queste sedi conduceva a ritenere che la nuova sanzione dovesse applicarsi anche ai casi in cui una determinata operazione fosse stata erroneamente fatturata con addebito dell’IVA, pur trattandosi di operazioni esenti o non imponibili. D’altra parte, “sarebbe difficile trovare una giustificazione sistematica al principio secondo cui sia detraibile l’imposta applicata in misura superiore a quella dovuta, e non anche quella non dovuta per altri motivi, ad esempio perché l’operazione in questione è esente o non imponibile, o addirittura esclusa” (cfr. Circolare Assonime cit.).

Nondimeno, la portata innovativa della previsione de qua[4] è stata radicalmente ridotta a seguito di due arresti della Corte di Cassazione che, fornendo una nuova interpretazione della norma, hanno avuto ampia eco. Con la sentenza 3 novembre 2020, n. 24289, i giudici di legittimità hanno, infatti, enunciato il principio di diritto per cui "in tema di IVA, l'imposta erroneamente corrisposta in relazione ad un'operazione non imponibile non può essere portata in detrazione dal cessionario, nemmeno a seguito della modifica apportata dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 935, al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 6. Invero, indipendentemente dalla sua efficacia retroattiva prevista dal D.L. n. 34 del 2019, art. 6, comma 3 bis, la menzionata disposizione si applica unicamente alla diversa ipotesi in cui, a seguito di un'operazione imponibile, l'IVA sia stata erroneamente corrisposta sulla base di un'aliquota maggiore rispetto a quella effettivamente dovuta".

I giudici hanno sostanzialmente statuito che, a prescindere dall’evenienza di un errore o di una perdita di gettito per l’Erario, il cessionario/committente che porti in detrazione l’IVA illegittimamente addebitatagli dalla controparte commerciale su un’operazione in realtà non imponibile/esente/fuori campo, sarà in ogni caso assoggettato all’originaria sanzione proporzionale pari al 90% dell’importo detratto, senza possibilità di detrarre alcunché. L’interpretazione restrittiva della nuova norma è stata ulteriormente corroborata dalla successiva sentenza 21 aprile 2021, n. 10439, con cui la Corte ha affermato che, anche nei casi in cui l’IVA sia stata erroneamente assolta in misura superiore a quella effettiva, l’art. 6, comma 6, deve essere interpretato nel senso che il diritto alla detrazione non si estende all’intero importo pagato, ma solo alla frazione di questo corrispondente all’IVA effettivamente dovuta.

4.   La lettura complessivamente offerta dalla Corte di Cassazione, quindi, conduce a riestendere, in modo significativo, le ipotesi di applicazione della sanzione proporzionale al 90%. Tale impostazione, che indubbiamente mette in luce un atteggiamento pro fisco della giurisprudenza italiana, si espone tuttavia a fondate critiche alla luce di numerosi arresti della Corte di Giustizia Europea: basti pensare al fatto che già con la sentenza EN.SA. era stato affondato un grave colpo all’impianto sanzionatorio italiano, posto che i giudici europei – pur disconoscendo il diritto alla detrazione dell’IVA comunque esposta in fattura – hanno ritenuto l’incompatibilità tra il principio di proporzionalità e l’art. 6, comma 6, che nella sua formulazione vigente ratione temporis prevedeva l’irrogazione di una sanzione di importo pari all’ammontare della detrazione compiuta. Con il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, l’entità di detta sanzione è stata ridotta al 90% e tale è rimasta fino ad oggi; nondimeno, tale attenuata riduzione può comunque risultare insufficiente se parametrata a quanto già più volte affermato dalla Corte europea sul rispetto del principio di proporzionalità[5].

In estrema conclusione, alla luce degli arresti richiamati è tangibile il contrasto di impostazione tra la giurisprudenza di Strasburgo e la rigidità dell’impianto sanzionatorio italiano (suffragato dalle ultime prese di posizione della nostra Suprema Corte). I giudici europei, infatti, pur prendendo costantemente atto di una carenza normativa (allorchè la direttiva IVA nulla preveda in ordine alla regolarizzazione della posizione del contribuente nei casi di indebita detrazione), stanno progredendo in un percorso di valorizzazione delle evenienze concrete dei casi ad essi sottoposti (quali, esemplificativamente, l’assenza di perdita per l’Erario, la mancanza di indizi di frode e, come in questo caso, la buona fede del contribuente) per attenuare l’inflessibilità delle legislazioni nazionali su tali temi.

A.P.


[1] Sentenza CGUE del 8 maggio 2019, resa nella causa C-712-17;

[2] Ad opera della Legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Legge di Bilancio 2018), art. 1, comma 935.

[3] Si veda, ex plurimis, Circolare Assonime n. 12 del 31 maggio 2018, par. 3, e Circolare 13 aprile 2018, n. 114153 del Com. Gen. Guardia di Finanza, All. 2, par. 10.

[4] A parere dei commentatori, l’introduzione della norma in oggetto era stata motivata dalla volontà di attenuare le conseguenze sfavorevoli previste a carico del cessionario/committente che si vedesse addebitare, sia pur in presenza di un errore e al di fuori di contesti di frode, un’IVA superiore a quella dovuta, ovvero totalmente non dovuta. Sulla base di quanto prospettato nei documenti citati, la riforma avrebbe dovuto evitare al contribuente l’assoggettamento a tre ordini di conseguenze, determinati dal precedente impianto normativo: il disconoscimento del diritto alla detrazione; l’applicazione della sanzione proporzionale al 90% dell’importo indebitamente detratto; la tendenziale impossibilità di chiedere all’Amministrazione il rimborso dell’IVA assolta, con correlato onere di rivalersi sul cedente/prestatore per recuperare l’IVA erroneamente addebitatagli.

[5] Cfr. Sentenza Grupa Warzywna Sp. z o.o. (C-935/19), cit., pt. 31: “dalla giurisprudenza della Corte risulta che una sanzione amministrativa che ha lo scopo di indurre i soggetti passivi a regolarizzare il più rapidamente possibile i casi di pagamento insufficiente dell’imposta e, pertanto, di raggiungere l’obiettivo di assicurare l’esatta riscossione della stessa, il cui importo è fissato, in via forfettaria, al 50% dell’importo dell’IVA che il soggetto passivo è tenuto a versare all’amministrazione fiscale, ma che può essere ridotto secondo le circostanze del caso, garantisce, in linea di principio, che tale sanzione non ecceda quanto necessario per raggiungere l’obiettivo di assicurare, conformemente all’articolo 273 della direttiva IVA, l’esatta riscossione dell’imposta”.

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