La quinta Sezione civile della Corte di cassazione, con l’ordinanza 30 giugno 2021, n. 18436, fissa alcuni importanti principi in materia di transfer pricing. La vicenda trae origine dal ricorso proposto da una società italiana, capogruppo di una multinazionale, avverso due distinti avvisi di accertamento, per le annualità 2008 e 2009, emessi ai fini IRES e IRAP dall’Agenzia delle entrate. In particolare, l’Amministrazione finanziaria contestava alla società, da un lato, l’omessa contabilizzazione di componenti positivi di reddito derivante dalla riorganizzazione aziendale con cessione di existing know how per l’anno 2008 e, dall’altro lato, gli omessi ricavi di vendita derivanti dalla ripartizione dei costi relativi ai servizi infragruppo dalla stessa prestati nel 2008 e nel 2009. La Commissione tributaria provinciale di Varese, riuniti i ricorsi, li rigettava integralmente in primo grado. In secondo grado, invece, la Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva in parte l’appello proposto dalla contribuente, annullando gli avvisi di accertamento limitatamente alle contestazioni riguardanti l’omessa contabilizzazione dei componenti positivi di reddito derivanti dalla cessione di existing know how e all’applicazione delle sanzioni relative alle rettifiche IRAP. Contro tale pronuncia, l’appellante proponeva ricorso per cassazione. Dalla pronuncia in oggetto emerge che il gruppo multinazionale aveva determinato il valore di libera concorrenza di alcuni servizi prestati dalla capogruppo italiana a favore di varie controllate estere utilizzando il c.d. “Transactional Profit Split Method” (“Profit Split”). Benché l’utilizzo del Profit Split non sia, nel caso concreto, in contestazione fra le parti, risultano degne di nota le considerazioni che i giudici di legittimità svolgono in merito all’affidabilità dello stesso nella determinazione del prezzo di libera concorrenza di una transazione infragruppo. Il Profit Split è uno dei metodi per la determinazione dei prezzi di trasferimento basati sull’utile della transazione. Esso si pone l’obiettivo di eliminare gli effetti sugli utili derivanti dalle speciali condizioni convenute o imposte in forza del rapporto di controllo tra imprese associate. Per fare ciò, in una prima fase individua gli utili da ripartire tra le imprese associate derivanti dalle transazioni effettuate (i c.d. “utili complessivi”) e, poi, li ripartisce tra le consociate utilizzando un criterio di ripartizione economicamente valido, per avvicinarsi alla ripartizione degli utili che sarebbe stata prevista e considerata in un accordo realizzato tra imprese indipendenti. In genere, il Profit Split viene utilizzato nei casi in cui le operazioni oggetto di valutazione siano più di una, strettamente integrate tra loro e molto complesse. La particolarità di detto metodo risiede, infatti, nel fatto che sia di tipo bilaterale, poiché analizza entrambe le parti di una transazione: esso, dunque, risulta essere più opportuno da utilizzare qualora tutte le parti dell’operazione apportino contributi unici e di rilevante valore (come, ad esempio, beni immateriali unici). Una volta determinati gli utili complessivi, la ripartizione degli stessi viene effettuata utilizzando uno o più chiavi o criteri di ripartizione. Questi ultimi possono essere basati sull’attivo o sul capitale (come gli asset operativi, le immobilizzazioni, i beni immateriali o il capitale impiegato), piuttosto che sui costi (come le spese e/o gli investimenti relativi a settori chiave, come quello della ricerca e sviluppo, dell’ingegneria o del marketing, oppure il costo del personale o il numero dei dipendenti impiegati). Sul punto, rifacendosi alle linee guida dell’OCSE sui prezzi di trasferimento ratione temporis vigenti (vale a dire quelle del 2010), la Cassazione afferma che “il metodo transazionale di ripartizione degli utili (cd. “transactional profit split method”, TPSM o PSM) è utilizzabile in modo altrettanto affidabile rispetto agli altri metodi di determinazione dei prezzi a condizione che, dopo l’accurata delimitazione della transazione, ivi compresa l’analisi funzionale, sia possibile procedere all’identificazione di una forte correlazione tra i costi sostenuti ed il valore aggiunto creato nel corso della transazione e purché le chiavi di allocazione selezionate – per le quali rilevano la classificazione contabile dei costi infragruppo e l’esistenza di eventuali differenze (“high labour-cost country v. low labour-cost country”) – siano conformi (“compliant”) per affidabilità dei risultati”. Pertanto, la Suprema Corte, con l’ordinanza in esame, conferma l’affidabilità del Profit Split a patto che sia possibile identificare una stretta correlazione tra i costi sostenuti e il valore aggiunto creato. Nel caso di specie, il criterio di allocazione utilizzato dall’Ufficio in sede di accertamento (vale a dire il volume d’affari) è stato ritenuto più adeguato rispetto a quello scelto dalla società italiana (cioè il numero dei dipendenti amministrativi). Sotto altro profilo, i giudici di legittimità hanno modo di ribadire la natura non antielusiva della disciplina sui prezzi di trasferimento. La ricorrente, difatti, deduceva la violazione di legge in cui era incorsa la sentenza impugnata nella parte in cui aveva parzialmente confermato la pretesa impositiva nonostante l’Agenzia delle entrate non avesse fornito alcuna prova circa l’esistenza di un vantaggio fiscale conseguito dalla società. La Cassazione, ribadendo il proprio costante orientamento sul punto (si veda, ex plurimis, la recente ordinanza n. 13850 della stessa quinta Sezione civile, pubblicata il 20 maggio 2021), chiarisce che la disposizione ex articolo 110, comma 7, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“T.U.I.R.”), “non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del “transfer pricing” (…) in sé considerato”. Per tale ragione, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate a un prezzo apparentemente inferiore a quello normale e non anche il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente; a quest’ultimo, invece, spetta l’onere di dimostrare che le operazioni poste in essere siano intervenute per valori di mercato da considerarsi “normali”, ai sensi dell’art. 9, co. 3, del T.U.I.R.. Infine, la pronuncia in esame risulta particolarmente interessante anche per aver affrontato la questione relativa all’applicabilità della disciplina sui prezzi di trasferimento ai fini IRAP, in relazione alle annualità dal 2008 al 2013. A tale riguardo, occorre ricordare che fino al 2007 la base imponibile IRAP veniva calcolata apportando al valore della produzione le variazioni in aumento o in diminuzione stabilite ai fini delle imposte sui redditi, comprese quelle previste ai sensi dell’art. 110, co. 7, del T.U.I.R.. Successivamente, con la l. 24 dicembre 2007, n. 244, è stata prevista la determinazione della base imponibile ai fini IRAP in virtù del principio di derivazione diretta dalle risultanze del bilancio civilistico rendendo, così, le rettifiche di transfer pricing del tutto irrilevanti. Da ultimo, l’art. 1, co. 281, della l. 27 dicembre 2013, n. 147 ha stabilito che la disciplina di cui al predetto art. 110, co. 7, del T.U.I.R. “deve intendersi applicabile alla determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive anche per i periodi successivi a quello in corso alla data del 31 dicembre 2007”. La Suprema Corte ha modo di affermare che l’art. 1, co. 281, della l. n. 147/2013 reca una norma di interpretazione autentica volta, in quanto tale, a produrre effetti anche per il passato. Alla luce di ciò, dunque, per la Cassazione la retroattività della disciplina sui prezzi di trasferimento non giustifica la violazione dei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3), di capacità contributiva (art. 53) e di libertà e iniziativa economica (art. 41), prospettata in ricorso dalla contribuente. RC