Abstract La Corte di Cassazione ribadisce l’illegittimità dell’operato dell’Ufficio che, pur avendo assolto all’onere probatorio circa la natura di cartiera di terzi fornitori, ometta di fornire l’ulteriore prova circa la consapevolezza del meccanismo fraudolento da parte del contribuente, erroneamente gravando quest’ultimo della prova contraria sul punto. *** L’ordinanza n. 20818 della Corte di Cassazione depositata il 21 luglio 2021, pur non fornendo elementi innovativi in tema di frodi c.d. carosello, assume un rilievo nella misura in cui ribadisce un principio ormai consolidato, persino granitico, e purtuttavia obliato con allarmante frequenza, in sede di accertamento, dagli uffici dell’Amministrazione finanziaria: l’inversione dell’onus probandi a carico del contribuente, tenuto a dimostrare la propria buona fede ed estraneità alla frode, scatta solo ove l’Ufficio abbia assolto al prodromico onere di dimostrare, anche per via presuntiva, “gli elementi di fatto che concretizzano la frode e la partecipazione ad essa o la consapevolezza di essa da parte del contribuente” (Cass., n. 15471/2012, ex multis). È notorio che l’Agenzia delle Entrate effettua sovente degli accertamenti volti a negare l’operatività del principio di detrazione dell’IVA, disciplinato dall’art. 19 del d.P.R. n. 633/1972, a soggetti perlopiù operanti in settori commerciali ritenuti, per struttura e modalità operative, di particolare sensibilità (a titolo esemplificativo si vedano le categorie merceologiche individuate dal Decreto MEF del 22 dicembre 2005). Tali soggetti, secondo lo schema classico delle contestazioni erariali, acquistano merci da società prive di reale struttura aziendale e sostanza finanziaria e commerciale. Si tratta delle c.d. “cartiere”, vale a dire società che non istituiscono scritture contabili, non presentano le dichiarazioni dei redditi, di regola operative in un arco relativamente ridotto di tempo, per poi essere poste in stato di liquidazione lasciando dietro di sé un “vuoto fiscale” indicativo della sussistenza di un meccanismo fraudolento ai danni dell’Erario. Talvolta la filiera della presunta frode comprende soggetti interposti tra le cartiere e gli acquirenti finali: si tratta dei cosiddetti “filtri” (o “buffers”), soggetti apparentemente regolari ma, tuttavia, inseriti nella catena commerciale in una posizione mediana, tale da rendere maggiormente difficoltoso l’accertamento di uno schema commerciale anomalo da parte dei funzionari preposti a tale attività, non consentendo una percezione immediata del collegamento tra la cartiera (da cui acquistano le merci) e l’effettivo cessionario (cui rivendono i medesimi prodotti). Nel caso oggetto dell’ordinanza in commento lo schema appare esser quello, più lineare, che prevede l’acquisto direttamente da società che, in base alle verifiche condotte dall’Ufficio, risultano manifestare le caratteristiche tipiche delle cartiere. Nel giudizio di primo grado, infatti, la Commissione Tributaria Provinciale di Bergamo aveva rigettato i ricorsi proposti da una società a responsabilità limitata avverso alcuni avvisi di accertamento con cui l’Ufficio aveva contestato, con riferimento agli anni 2006 e 2007, l’indebita deduzione di costi (ai fini delle imposte dirette) e detrazione dell’IVA in relazione a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. La decisione dei primi giudici veniva parzialmente confermata, con riguardo alla ripresa erariale ai fini IVA, dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, avverso la cui statuizione la contribuente interponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi: Per quanto qui di interesse, rigettato il primo motivo di ricorso, la Suprema Corte ha invece ritenuto di accogliere il secondo, così cassando con rinvio la pronuncia impugnata. In dettaglio, “sulla scia della giurisprudenza unionale”, espressamente invocata, la Sezione tributaria ha inteso ribadire la regola generale del riparto dell’onere probatorio in materia di frodi IVA, per cui l’Amministrazione è tenuta a dimostrare due diverse e concorrenti circostanze: (i) l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni contestate, attesa la ritenuta interposizione fittizia del soggetto apparente, e (ii)la consapevolezza o conoscibilità, da parte del cessionario, dell’inserimento delle cessioni in un meccanismo fraudolento (il noto assioma “sapeva, o avrebbe dovuto sapere”), Altrimenti detto, è necessario che parte erariale provi, da una parte, che l’operazione è soggettivamente inesistente e, dall’altra, la sussistenza di elementi oggettivi idonei a far intendere (non meramente sospettare in assenza di oggettivi elementi di prova – cfr. CGUE, sentenza 4 giugno 2020, C-430/19) al cessionario detta inesistenza. Da parte sua, il contribuente deve provare la propria buona fede e incolpevole ignoranza del meccanismo decettivo volto all’evasione d’imposta, dimostrando di aver effettivamente concluso l’operazione con il proprio cedente (soggetto emittente la fattura) e di aver condotto verifiche idonee a rimuovere ogni possibile dubbio circa la sua effettiva realtà e non fittizietà. A latere la complessa problematica dei limiti entro cui devono muoversi, nell’ambito delle dinamiche probatorie, tanto l’Ufficio quanto il contribuente, nonché quella – strettamente correlata – delle garanzie da riconoscere a quest’ultimo onde evitare che si trovi esposto a una vera e propria probatio diabolica, magari assumendosi un ruolo “investigativo” invero spettante in via esclusiva all’Amministrazione, ciò che qui rileva è la netta, quasi assiomatica, posizione assunta dalla Suprema Corte in ordine alla scansione logica dell’onere probatorio in capo ai due terminali del rapporto tributario. Secondo i giudici di legittimità, infatti, in caso di contestata detrazione indebita dell’IVA a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti il giudice di merito non può limitarsi a dare per scontato l’adempimento dell’onere probatorio di parte erariale a fronte della sola dimostrazione della fittizietà della fatturazione in forza della comprovata natura di cartiera del fornitore (in quanto soggetto privo di idonea struttura aziendale, dotato di una contabilità inattendibile e via dicendo), ma deve altresì “verificare l’assolvimento dell’ulteriore onere probatorio a carico dell’ufficio, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, circa la consapevolezza del meccanismo fraudatorio da parte della contribuente”. L’Ufficio, infatti, non può far “ricadere erroneamente su quest’ultimo [i.e. sul contribuente] l’onere di fornire “la prova rigorosa (…) del non avere saputo né avere potuto sapere, con l’ordinanza diligenza commerciale, della disinvoltura fiscale dei danti causa””. All’Ufficio, dunque, è demandato un “ulteriore onere probatorio” che si sostanzia nel dimostrare, elementi oggettivi alla mano, la consapevolezza o, comunque, la conoscibilità della frode da parte del contribuente. Il dato interessante, sebbene non nuovo, che emerge dall’ordinanza qui esaminata risiede, pertanto, nell’annullamento (con rinvio) della sentenza di secondo grado che aveva ritenuto legittimo l’operato dell’Ufficio che, pur avendo fornito prova inequivocabile del fatto che i fornitori della società contribuente fossero soggetti fittizi, aveva tuttavia omesso di adempiere all’ulteriore onere probatorio concernente il profilo soggettivo della consapevolezza o conoscibilità della frode, stabilendo erroneamente che la prova contraria sul punto gravasse sul contribuente. Tale principio, inoltre, è stato recentemente ribadito anche da Cass., sent. n. 11685/2021 (che richiama, inter alia, Cass. n. 27566/2018, citata nell’ordinanza n. 20818/2021 oggetto del presente contributo). Da ciò consegue che l’inversione dell’onere della prova non costituisce un a priori logico-giuridico, bensì l’effetto dell’adempimento di un prodromico onere probatorio (articolato sul duplice piano oggettivo e soggettivo) da parte dell’Ufficio. Solo a valle di tale adempimento si verifica legittimamente un capovolgimento di prospettiva, per cui – nelle parole della Suprema Corte – “ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (Cass., n. 9851/2018. Conformi Cass., n. 27566/2018; id., n. 5873/20219; id., n. 15369/2020; id., n. 9780/2021). Collocandosi nel solco di tale giurisprudenza, in nulla sconfessata, la Suprema Corte ribadisce dunque l’adesione a una posizione rigorosa, ma anche più bilanciata, che in un’ottica maggiormente garantista prevede una miglior distribuzione dell’onere probatorio tra parte erariale e contribuenti, così evitando di gravare questi ultimi di una prova non di loro spettanza. F.N.