Negli ultimi mesi, ha incontrato crescente consenso in ambito internazionale l’ipotesi di introdurre una “minimum tax” finalizzata ad assoggettare a tassazione i profitti esteri dei gruppi multinazionali laddove non soggetti ad una congrua tassazione negli Stati nei quali operano. Il progetto, inizialmente elaborato in ambito OCSE, ha incontrato a decorrere dal 2021 l’appoggio degli Stati Uniti. A luglio, tale progetto ha trovato il supporto dell’Unione Europea e degli Stati appartenenti al cd. “G7” ed è stato oggetto di un accordo appoggiato da 130 Paesi in ambito OCSE. Tale accordo è stato recentemente confermato, a ottobre, nell’ambito del G20, a Washington e Roma. In base a tale accordo, inoltre, le aziende, con entrate per oltre 20 miliardi di euro, potranno inoltre essere tassate anche nei Paesi in cui avvengono effettivamente i consumi (e non in quelli in cui hanno la sede legale, come è accaduto fino ad ora). Tale nuovo regime dovrebbe entrare in vigore dal 2023. Come conseguenza di ciò, deve ritenersi definitamente naufragato il progetto di “web tax” europea che tanta opposizione aveva ricevuto dagli Stati Uniti in quanto colpiva soprattutto le grandi aziende tecnologiche. Analogamente, gli Stati che sinora hanno adottato in varie forme la “web tax” abbandoneranno progressivamente tali modalità di tassazione. Per meglio comprendere il contenuto e le finalità di nuovo assetto internazionale è opportuno svolgere alcune riflessioni in merito alla tassazione delle multinazionali, ed in particolare delle imprese digitali, nell’attuale contesto internazionale. Le regole generali della fiscalità internazionale Le regole fiscali della maggior parte degli Stati prevedono la tassazione delle società nello Stato di residenza, con riferimento ai redditi ovunque prodotti nel mondo (cd. “worldwide income taxation”). Normalmente, tale Stato di residenza coincide, a prescindere dalla sede legale, con il luogo dal quale provengono gli impulsi decisionali (cd. “place of effective management”). Negli altri Stati, diversi da quello di residenza, un’impresa viene assoggettata a tassazione solo con riferimento ai redditi ivi prodotti (cd. “Stato della fonte”). Normalmente, tale tassazione nello Stato della fonte presuppone la sussistenza di una società controllata (cd. “subsidiary”) o di una base fissa di affari/stabilimento (cd. “stabile organizzazione”). Sia la subsidiary che la stabile organizzazione sono tassate in relazione ai redditi ad esse riferibili. Il reddito di tali entità è determinato in base al cd. “arm’s lengh principle” (vengono cioè tassate sul reddito ipotetico che, tenuto conto delle loro funzioni, avrebbero conseguito in condizioni di libero mercato). L’effetto di tali regole si riverbera di fatto “a cascata” anche sulla tassazione finale dei grandi gruppi multinazionali. Questi operano normalmente mediante un’articolata struttura societaria, spesso dislocata in vari Stati. Tale struttura è caratterizzata, in estrema sintesi e con alcune semplificazioni, dalla presenza di un cd. “headquarter” ove è localizzata la cd. “ultimate parent company” dalla quale provengono gli impulsi volitivi fondamentali e da alcune market jurisdiction (cioè dove il gruppo “vende” al cliente i propri beni e servizi”). Vi è poi una pluralità di strutture intermedie, localizzate in diverse giurisdizioni, che si inseriscono a vario titolo nella catena del valore. I rapporti tra le varie entità del gruppo sono regolati in base all’arm’s lengh principle. In tale scenario, la tassazione subita dal gruppo multinazionale si concentra normalmente nella market jurisdiction (in capo alla subsidiary o alla stabile organizzazione) ed in capo all’ultimate parent company, al momento della distribuzione dei dividendi (da parte della subsidiary o delle altre strutture intermedie). Nella prassi le imprese hanno sviluppato una pluralità di metodi per ottenere una tassazione più efficiente. Ciò è avvenuto in estrema sintesi localizzando le strutture intermedie in Stati a bassa fiscalità e ivi convogliando i redditi ed evitando laddove possibile di distribuire i dividendi all’ultimate parent company. Inoltre, laddove possibile, si è cercato di ridurre al minimo la presenza nello Stato della fonte al fine di evitare l’insorgenza di una stabile organizzazione (cd. “avoidance of the status of permanent establishment”). Ad ogni modo, anche le amministrazioni finanziarie dei singoli Stati hanno sino ad oggi disposto di validi sistemi di contrasto Da un lato, gli Stati di residenza hanno introdotto normative volte a tassare i dividendi esteri a prescindere dalla distribuzione (cd. “imputazione per trasparenza”). Il funzionamento di tale ultimo strumento, peraltro (denominato nella prassi “controlled foreign companies” o “CFC”) in realtà soffre di moltissime eccezioni. In Italia, ad esempio, stante anche alcuni limiti posti dall’appartenenza all’Unione Europea, i soggetti esteri il cui reddito è imputato per trasparenza sono relativamente pochi. Negli Stati Uniti, i limiti all’applicazione di tale regime, anche nell’attuale assetto, hanno permesso la localizzazione all’estero, nel passato, di enormi masse di profitti non distribuiti. Nello Stato della fonte, le Amministrazione finanziarie hanno contestato la presenza di una stabile organizzazione non dichiarata nel proprio territorio (“stabile organizzazione occulta”) oppure, in base all’arm’s lengh principle, hanno allocato una maggiore quota di utili alla stabile organizzazione. Lo scenario sopra descritto rappresenta ovviamente una estrema banalizzazione. Le strutture adottate possono essere molto più sofisticate ed i flussi reddituali molto più articolati e complessi. Ad ogni modo, i principi che governano la materia sono in estrema sintesi quelli sopra esposti. Le regole sopra esposte sono state elaborate nell’ottica di un’economia cd. “brick and mortar”, tradizionale. In tale scenario, è relativamente agevole identificare i luoghi di produzione del reddito. Tale luogo coincide tendenzialmente con gli stabilimenti produttivi localizzati nello Stato di residenza della singola società. Laddove l’impresa decida di espandersi sui mercati internazionali propria attività deve localizzazione i propri stabilimenti produttivi o commerciali anche nello Stato di destinazione. Il reddito prodotto da tali attività economiche può facilmente essere attratto a tassazione mediante l’identificazione degli stabilimenti produttivi o commerciali e l’identificazione dei ricavi dagli stessi prodotti. L’economia digitale e la crisi della fiscalità internazionale Tali regole di tassazione non sono più idonee ad intercettare i redditi generati delle imprese multinazionali in generale e in particolar modo di quelle digitali. I ricavi relativi alle attività in questione, infatti, sono caratterizzati dal fatto di essere generati per buona parte grazie all'impiego di beni immateriali (marchi e know how, essenzialmente; "intangibles"), unici ed esclusivi. Per contro, le attività digitali non necessitano di strutture materiali significative. Essi possono essere inoltre trasferiti facilmente da una giurisdizione all’altra. In tale stato di cose, risulta estremamente difficile assoggettare a tassazione i ricavi conseguiti dalle imprese multinazionali digitali. Da un lato, infatti, mediante la localizzazione di tali intangibles in Stati a bassa fiscalità è possibile evitare la tassazione dei ricavi nello Stato di residenza rinviando ad libitum il rimpatrio dei dividendi. Dall’altro lato, tali redditi non sono assoggettati a tassazione nemmeno nello Stato della fonte. Come detto, infatti, il presupposto al quale la maggior parte degli ordinamenti ricollega la potestà impositiva per i redditi di impresa prodotti dai soggetti non residenti è la sussistenza nello Stato della fonte di una subsidiary/ stabile organizzazione. Ebbene, mediante lo svolgimento di attività digitali è relativamente agevole evitare l’insorgenza di tale presupposto. Le imprese digitali possono infatti come noto realizzare cessioni/ricavi in uno Stato anche senza ivi collocare alcuno stabilimento. Laddove sia necessario collocare una subsidiary nello Stato della fonte, è possibile ridurre l’impatto fiscale attribuendo alla stessa limitate. Il fenomeno non è sicuramente nuovo. Come sopra accennato, anche nell’ambito dell’economia tradizionale moltissime multinazionali hanno adottato strategie per ottimizzare il proprio carico fiscale. Tale fenomeno si è tuttavia intensificato con l’economia digitale. La facilità di circolazione degli intangibles e la loro immaterialità permette infatti di sottrarre pressoché completamente il valore aggiunto generato ad imposizione sia allo Stato di residenza che allo Stato della fonte. Peraltro, differentemente rispetto al passato, la sottrazione all’imposizione delle imprese digitali non è solo determinata dalle strategie di pianificazione fiscale poste in essere dai gruppi multinazionali; essa è invece legata all’inidoneità delle regole della fiscalità internazionale nel loro complesso a intercettare la ricchezza generata dall’economia digitale. Tale fenomeno di trasferimento degli utili in Stati a bassa fiscalità prende il nome di “profit shifting”. La perdita di gettito per gli Stati causata da tale fenomeno raggiunge, in base ad alcune stime, 240 miliardi di Dollari l’anno. Il problema in questione investe le imprese digitali nel loro insieme, ovunque localizzate. Ad ogni modo, in un’ottica macroeconomica è possibile affermare che, nella maggioranza dei casi, il ruolo di Stato di residenza è assunto dagli Stati Uniti, in quanto luogo di headquartering della maggioranza delle imprese digitali. Il ruolo di Stato della fonte è invece normalmente assunto dall’Europa e dai paesi in via di sviluppo, nella loro qualità di market jurisdiction. Rimedi internazionali e difficoltà di attuazione (sino ad oggi) In ambito internazionale, in seno all’OCSE, al fine di scongiurare il suddetto fenomeno di profit shifting, sono state elaborate alcune strategie. Tali strategie sono contenute in alcuni documenti recentemente pubblicato dall’OCSE, nell’ambito dell’attuazione del progetto BEPS. Si tratta dei cd. Blue Pillar pubblicati dall’OCSE nell’ottobre 2021[1]-[2]. Le proposte sono due e sono indicate come “pilastri” (“Pillar”). In estrema sintesi: - Il Pillar 1 prevede l’attribuzione forfettaria dei profitti del gruppo multinazionale nello Stato della fonte/market jurisdiction (al fine di “tassare” le multinazionali anche in assenza di una stabile organizzazione/subsidiary); - Il Pillar 2 prevede l’applicazione di un’aliquota minima di tassazione in capo al gruppo nel suo complesso (ciò al fine di tassare i profitti delle multinazionali non “reimpatriati”). Nel dettaglio, il primo pilastro (Pillar 1) prevede l’allocazione di una quota forfettaria dei profitti consolidati dell’impresa, in base ad un criterio cd. “top down”, allo Stato della fonte. Ciò a prescindere dall’effettiva presenza di stabilimenti in tale Stato. In tal modo, si dovrebbe “supplire” alla difficoltà di applicare il concetto di stabile organizzazione alle imprese digitali. I profitti allocati mediante tale criterio (cd. Amount A) sarebbero determinati sottraendo ai profitti totali una quota riferibile alle attività routinarie. Ciò nell’ottica di assoggettare a tassazione i profitti derivanti dall’impiego di intangibles che , per le ragioni sopra esposte, maggiormente sfuggono all’applicazione delle regole tradizionali. L’extraprofitto così ottenuto viene allocato alle singole giurisdizioni. Il metodo di allocazione dell’Amount A rappresenta una rivoluzione rispetto alle regole della fiscalità internazionale, le quali come detto prevedono che i redditi tassabili dallo Stato della fonte vengano determinati in base all’arm’s lengh principle. Oltre all’Amount A, lo stato della fonte avrebbe il diritto di tassare i redditi riferibili alle attività di marketing (Amount B) e alle attività routinarie (Amount C) svolte nello Stato della fonte. A differenza dell’Amount A, gli amount B e C verrebbero determinati in base all’arm’s lengh principle, in conformità con le regole tradizionali della fiscalità internazionale. Con riferimento all’amount B, peraltro, è prevista l’adozione di un cd. “safe harbour” (cioè l’indicazione di una percentuale di redditività minima, dichiarata la quale il contribuente non è soggetto a contestazione). Il Pillar 2 opera sulla base di un approccio “country by country” (in altre parole, l’eventuale livello di tassazione del reddito estero è calcolato in relazione ai singoli Stati): Sono previsti appositi meccanismi di riconoscimento delle imposte pagate all’estero e di riporto delle perdite. Tale particolare metodo di allocazione dei redditi troverebbe applicazione con riferimento ad alcune categorie di attività/imprese (in scope activities): - Automated digital service; - Consumer facing services. La prima categoria ricomprende le attività digitali propriamente intese secondo l’accezione comune: pubblicità on line; vendita di dati; motori di ricerca; social media; intermediari digitali; servizi digitali; gaming; formazione on line standard; cloud services. La seconda categoria ricomprende le attività tradizionali laddove svolte in “modalità digitale” (ad es. le vendite online delle case di moda). Alcuni settori di attività sono espressamente esclusi (es. attività finanziarie e trasporto aereo e marittimo internazionale). Al di fuori delle attività sopra menzionate (cd. “in scope activities”), troveranno applicazione gli ordinari criteri di attribuzione del reddito allo Stato della fonte (“arm’s lengh principle”). Il secondo pilastro (Pillar 2) prevede l’applicazione di un livello minimo di tassazione nello Stato di residenza in capo all’ultimate parent company (Global anti-base erosion proposal – GloBE). Più nel dettaglio, la proposta formulata dall’OCSE si articola in due principali componenti, la “Income inclusion rule” e la “Tax on base eroding payments”. La Income inclusion rule è la regola fondamentale del Pillar 1. Essa prevede, in estrema sintesi, l’imputazione dei redditi delle società estere appartenenti ad un gruppo, in capo alla ultimate parent company,a prescindere dalla distribuzione dei dividendi. La regola in questione dovrebbe applicarsi con riferimento ai ricavi derivanti dall’attività digitale, laddove risultasse che gli stessi non hanno scontato congrua tassazione (GloBe income). I ricavi oggetto di imputazione per trasparenza sarebbero assoggettati ad un’aliquota minima che opererebbe, come già accennato, quale minimum tax. In estrema sintesi e con alcune semplificazioni, tale risultato viene ottenuto applicando un’aliquota minima sui redditi esteri al netto di una percentuale forfettaria, oggetto di carve out, ritenuta riferibile all’impiego di beni materiali (tale percentuale viene determinata applicando una determinata quota percentuale agli asset materiali della controllata estera). In tal modo, la disciplina in esame mira a determinare forfettariamente l’ammontare di redditi esteri riferibili ad intangibles e non assoggettati a tassazione nello Stato di residenza. A completamento del meccanismo dell’Income inclusion rule, l’OCSE prevede l’introduzione di una Tax on base eroding payments. Tale misura comporta la negazione della deducibilità di un pagamento tra parti correlate se la relativa componente reddituale non è assoggettata ad una aliquota effettiva minima nel Paese di destinazione (cd. “undertaxed payments rule”). Tale regola dovrebbe svolgere il ruolo di “minimum tax supplettiva”, trovando applicazione laddove lo Stato di residenza non adottasse in prima battuta il Pillar 1. Una regola particolare trova applicazione nell’ipotesi in cui il pagamento venga effettuato nei confronti di un soggetto residente in uno Stato in cui vige una Convenzione contro le doppie imposizioni. In tale ipotesi, il soggetto pagatore può applicare una ritenuta ai pagamenti di dividendi, interessi, royalties non assoggettati nello Stato del percipiente a congrua tassazione. Il Pillar 2 opera evidentemente come misura di supporto al Pillar 1. Il Pillar 2, infatti, dovrebbe garantire un’idonea tassazione nello Stato di residenza delle attività svolte da un gruppo multinazionale in tutte le ipotesi in cui le stesse non siano assoggettate ad idonea tassazione nello Stato della fonte mercè l’applicazione del Pillar 1. Nel lungo termine, peraltro, il Pillar 2 dovrebbe produrre un effetto dissuasivo rispetto all’adozione di schemi di pianificazione fiscale internazionale. Infatti, laddove tale misura operi in maniera effettiva, i gruppi multinazionali perderanno interesse nel localizzare in Stati a fiscalità privilegiata le società detentrici degli intangibles di maggiore valore. Ciò in quanto, in ogni caso, i redditi relativi a tali intangibles - anche laddove non assoggettati a tassazione nello Stato della fonte, mercè il Pillar 1, o negli Stati ove sono collocate le strutture intermedie - sconteranno una congrua tassazione nello Stato di residenza della casa madre, mercè l’applicazione di una minimum tax. A propria volta, gli Stati che attualmente applicano aliquote inferiori alla media degli altri Stati perderanno attrattività e, per l’effetto, saranno portati ad innalzare le proprie aliquote. Non avrebbe infatti senso per tali Stati mantenere aliquote inferiori alla media, rinunciando a gettito, laddove si avesse la certezza che in ogni caso tali imposte verrebbero prelevate nello Stato di residenza della casa madre. Nel lungo periodo, pertanto, l’adozione congiunta del Pillar 1 e del Pillar 2 dovrebbe comportare un’uniformazione delle aliquote applicate dai diversi Stati. Sotto il profilo politico, il Pillar 1 e 2, nel loro complesso, dovrebbero ottemperare le esigenze sia degli Stati Uniti che dell’Unione Europea (nonché dei Paesi in via di Sviluppo). Il Pillar 1, infatti, garantendo l’attrazione a tassazione nello Stato della fonte dei redditi delle imprese digitali, dovrebbe venire incontro alle esigenze degli Stati Europei, uno dei principali mercati di destinazione dell’economia digitale, assicurando la tassazione in tali Stati dei ricavi ivi prodotti. Tali ricavi, infatti, come detto, in base alle attuali regole di fiscalità internazionale sfuggono a imposizione in tali mercati, in quanto prodotti in assenza di una stabile organizzazione. Il Pillar 2, invece, determinando una tassazione secondaria nello Stato di residenza, dovrebbe tutelare gli interessi degli Stati Uniti, luogo di localizzazione della maggior parte delle imprese digitali. Tale interesse verrebbe tutelato sia in ragione dell’imposizione aggiuntiva che esso determina, sia per il sopradescritto effetto dissuasivo rispetto alle principali strutture di pianificazione fiscale aggressiva. Nelle intenzioni dei suoi promotori, peraltro, i Pillar 1 e 2 permetterebbero di contrastare l’elusione fiscale internazionale rispettando la sovranità dei singoli Stati. Tali misure, infatti, lascerebbero ciascun Paese libero di determinare il proprio livello di prelievo. Al contempo, tale misura permetterebbe agli altri Stati, di esercitare una forma di potestà impositiva “secondaria” o “sostitutiva” nel caso in cui i profitti d’impresa vengano tassati al disotto di una soglia minima internazionalmente concordata. Le difficoltà connesse all’adozione di Pillar 1 e 2 e i rimedi unilaterali L’adozione congiunta del Pillar 1 e 2 ha incontrato tuttavia alcuni ostacoli a livello internazionale. Da un lato, gli Stati Uniti, in qualità di Stato di localizzazione della maggior parte delle imprese digitali, erano scarsamente interessati all’adozione del Pillar 1 che opera essenzialmente a vantaggio degli Stati della fonte. Gli Stati Uniti, peraltro, hanno mostrato un certo sfavore verso una normativa che si focalizzi esclusivamente sulla tassazione delle attività delle imprese digitali. Ciò potrebbe determinare una discriminazione verso tale settore, di rilievo nell’economia americana. D’altro canto, le nazioni europee, in quanto mercato di sbocco delle imprese digitali, non hanno un interesse prevalente all’adozione di una minimum tax quale quella prevista dal Pillar 2. Peraltro, tale misura potrebbe avere ripercussioni negative sull’attività internazionale dei gruppi multinazionali localizzati nell’Unione Europea, in particolare in Francia e Germania. In aggiunta agli interessi per così dire “opposti e speculari” di USA e Unione Europea, vi sono poi gli interessi “asimmetrici” di ulteriori player. I paesi in via di sviluppo, ad esempio, ritengono che il Pillar 1 e 2 non determinino effetti benefici per le proprie economie, attribuendo una potestà impositiva eccessivamente limitata allo Stato della fonte (e determinando una tassazione ancora troppo bassa nello Stato dove le imprese operano). In tale stato di cose, sia gli Stati Uniti che l’Unione europea, tenuto conto della difficoltà di adottare una soluzione congiunta a livello internazionale, hanno in passato elaborato soluzioni unilaterali volte a soddisfare le rispettive esigenze. Gli Stati Uniti, infatti, durante l’amministrazione Trump per attrarre a tassazione i profitti esteri delle proprie multinazionali[3] hanno adottato una pluralità di incentivi al reshoring/ disincentivi all’offshoring (in base ad un approccio cd. «stick and carrot »). Il più rilevante strumento adottato è denominato -Global Intangible Low-Taxed Income. Si tratta di un regime che prevede l’imputazione per trasparenza dei redditi relativi agli intangibles detenuti all’estero delle imprese multinazionali a condizione che non siano stati assoggettati ad una congrua imposizione all’estero. Al fine di enucleare i redditi da intangible è prevista l’applicazione di un carve out pari al 10% forfettariamente riferibile alle attività materiali. I profitti così determinati sono imponibili al 50%. È previsto un credito di imposta pari all’80% delle imposte versate all’estero. In estrema sintesi, il GILTI determina l’applicazione ai profitti esteri di un’aliquota effettiva normalmente pari al 13,5. Si tratta, evidentemente, di uno strumento molto simile alla minimum tax di cui al Pillar 2. Dall’altro lato, alcuni Stati dell’Unione Europea hanno adottato le cd. “Web tax”/“Digital services tax”. Ciò al fine di assoggettare a tassazione i ricavi delle imprese digitali nello Stato della fonte. Tale sistema di tassazione dalla cd. “Digital service tax” introdotta in alcuni Stati Europei, compresa l’Italia, è assimilabile sotto certi profili al Pillar 1. Ciò nel senso che, seppur con alcune differenze significative anche in merito all’oggetto e alle modalità impositive, sia il Pillar 1 che la Digital service tax mirano ad intercettare i medesimi fenomeni reddituali (i.e. i ricavi delle imprese digitali prodotti nello Stato della fonte in assenza di stabile organizzazione). Sotto certi profili, rappresenta la Digital Service tax rappresenta un tentativo unilaterale dei singoli Stati di attrarre a tassazione nello Stato della fonte i profitti delle imprese digitali, nelle more dell’adozione di una soluzione unilaterale condivisa. È interessante notare il fatto che tutti i rimedi sopra descritti (Pillar 1 e 2, nonché gli unilaterali) sono accomunati dalla tendenza a intercettare i redditi derivanti da intangibles. I rimedi in questione, in altre parole, partono dalla premessa che il profit shifting delle imprese viene realizzato in misura prevalente mediante l’allocazione di intangibles in Stati a fiscalità privilegiata. Per tale ragione tutti i rimedi in questione, almeno nella loro forma originaria, prevedono un “carve out” riferibile alle attività materiali Si fa riferimento ad esempio all’individuazione del profitto routinario nel Pillar 1, all’applicazione di un coefficiente di redditività sugli asset immateriali nel Pillar 2 e nel GILTI. Sotto certi profili, seppur con metodi impositivi del tutto diversi, anche la “Web tax” nelle sue varie declinazioni, nell’intercettare i profitti delle vendite on line, mira ad assoggettare a tassazione il medesimo fenomeno. Recenti sviluppi internazionali La materia è in corso di evoluzione mentre il presente documento viene redatto. Ad ottobre 2020, emanati i Blue Print, a ridosso delle elezioni americane, i giochi sembravano fermi, né si ipotizzavano possibili sviluppi. Già Pascal Saint-Amans (Direttore del Centre for Tax Policy and Administration dell’OCSE) aveva manifestato il suo scetticismo sul fatto che gli USA potessero prendere sul tema una posizione radicalmente diversa rispetto alla linea tenuta finora dall’amministrazione Trump. Saint-Amans, in particolare, aveva sottolineato come gli europei sottostimassero quanto in realtà fosse bipartisan la posizione americana (“Europeans underestimate how bipartisan the U.S. position is … You cannot attack U.S. tech companies”; cfr. M. Heikkilä, E. Braun, Digital tax: A cautionary tale, Politico.eu, 20 giugno 2020). Anche il Ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, aveva manifestato sostanzialmente il medesimo punto di vista, osservando che nel caso di una vittoria di Biden non ci si attendesse grandi cambiamenti in materia di tassazione delle imprese digitali (“There could be a change on the question of sanctions and how the U.S. will behave with Europe … But I’m more skeptical about fundamental change in the U.S. position on digital tax”; cfr. W. Horobin, France to Go Ahead With Digital Tax, Risking U.S. Tariffs, Bloomberg.com, 14 ottobre 2020) Nel 2021, la tematica è tuttavia nuovamente salita alla ribalta internazionale. Nel mese di aprile 2021, il dipartimento del tesoro americano ha diffuso il documento intitolato “Made in America Tax Plan”. In esso viene manifestata apertamente l’adesione dell’amministrazione Biden all’adozione di una minimum tax. L’attuale congiuntura economica e l’indebolimento della classe media richiedono l’effettuazione di importanti investimenti e, in generale, la devoluzione di importanti risorse all’economia. La crisi recentemente abbattutasi a livello globale, a causa dell’epidemia di COVID-19, ha accentuato tale esigenza. L’amministrazione Biden intende appunto finanziare tale spesa mediante un innalzamento dell’aliquota societaria. Ciò ha comportato l’esigenza per gli Stati Uniti di adottare a livello globale una minimum tax. Quest’ultima è infatti necessaria, da un lato, per recuperare a tassazione le ingenti quote di profitti che le multinazionali americane hanno localizzato in Stati a fiscalità privilegiata. In secondo luogo essa è necessaria al fine di evitare che le multinazionali americane siano incentivate all’offshoring a seguito dell’innalzamento dell’aliquota societaria[4]. Da ciò è conseguito l’appoggio degli Stati Uniti al Pillar 1. Per l’effetto, al fine di indurre le controparti europee al raggiungimento di un accordo a livello internazionale, gli Stati Uniti hanno manifestato l’intenzione di venire loro incontro, appoggiando anche l’adozione del Pillar 2. Ciò al fine di venire incontro alle esigenze delle controparti europee, interessate, come detto, alla tassazione nello Stato della fonte dei ricavi delle imprese digitali. Il 18 maggio 2021 la Commissione europea ha pubblicato una comunicazione dal titolo "Tassazione delle imprese per il XXI secolo" (COM(2021) 251) in cui riflette su un'agenda fiscale generale dell'Unione e delinea i prossimi passi per realizzare una riforma del regime di tassazione internazionale delle imprese. Nel breve periodo, la Commissione Europea intende attuare l'accordo globale in tema di Pillar 1 e 2. Una volta che l'accordo globale sarà stato concluso, la Commissione europea prevede di garantirne l'attuazione mediante due distinte proposte di direttiva, ciascuna relativa a uno dei pilastri sopra citati. In data 2 giugno 2021, la Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, Katherine Tai, ha annunciato l’adozione di contromisure contro sei Stati che hanno adottato Digital Service Tax nazionali. Tali misure sono ritenute "inconsistent with principles of international taxation", in quanto discriminerebbero le imprese digitali statunitensi. Contestualmente, è stato altresì annunciata la sospensione per un periodo di 180 giorni di tali sanzioni. L'Italia è uno dei sei Stati colpiti dalle (potenziali) sanzioni. La logica sottostante a tali misure risiede nella volontà degli USA di indurre i suddetti Stati a rinunciare alle misure unilaterali adottate al fine di assoggettare a tassazione le imprese digitali. Ciò al fine di raggiungere un accordo su una base multilaterale in sede OCSE, mercè l’adozione del Pillar 1 e 2. Come detto, gli Stati Uniti sono infatti interessati all’adozione di tali misure non unilateralmente, bensì in una logica condivisa su scala internazionale. Le misure adottate dagli Stati Uniti sembrano aver ottenuto l’effetto previsto. In data 5 giugno 2021, a Londra, nell’ambito del G7, le principali economie del mondo hanno raggiunto un accordo in merito all’adozione del Pillar 1 e 2. Il 1° luglio 2021, in ambito OCSE, 130 giurisdizioni hanno manifestato l’intenzione di adottare i medesimi principi. Ha aderito all’accordo la stragrande maggioranza dei Paesi. Tali Paesi corrispondono a più del 90% del Pil mondiale. Tra i Paesi aderenti sono ricomprese Cina, India e Russia, la cui partecipazione non era scontata. In data 8 ottobre l’OOSE ha annunciato che 136 Paesi e giurisdizioni fiscali hanno siglato un nuovo accordo finalizzato all’implementazione di Pillar 1 e 2. Il nuovo testo contiene ulteriori disposizioni di dettaglio anche alla luce degli aggiustamenti e dei negoziati degli ultimi tre mesi. Il nuovo accordo ha ottenuto anche l’assenso dei tre Paesi Ue che non avevano firmato a luglio e cioè Ungheria, Estonia e Irlanda. Unico assente tra gli Stati membri dell’Unione europea rimane Cipro. Inoltre, non hanno firmato il documento finale solo Kenya, Nigeria, Sri Lanka e il Pakistan, che in un primo momento aveva dato il suo assenso. Relativamente pochi sono i Paesi che non hanno aderito. In base all’accordo raggiunto, il Pillar 1 troverà applicazione in relazione ai grandi colossi dell’economia globale, ovvero le corporation che fatturano oltre 20 miliardi di euro l’anno (con la prospettiva futura di un abbassamento della soglia a 10 miliardi) e che abbiano una redditività di almeno il 10%. Sono escluse le imprese estrattive e quelle che operano nei mercati finanziari regolamentati. L’Ocse calcola che in questo perimetro rientreranno all’incirca 100 soggetti multinazionali. Oggetto di riallocazione sarà il 25% dei profitti in eccesso. Beneficiarie di tale allocazione saranno le giurisdizioni in cui la multinazionale produce almeno un milione di euro di ricavi oppure anche solo 250mila euro per le giurisdizioni che hanno un Pil più basso di 40 miliardi di euro. Secondo i calcoli dell’Ocse, grazie al nuovo criterio di riassegnazione, oltre 125 miliardi di dollari di profitti “si muoveranno” verso le market jurisdiction. I maggiori destinatari, secondo l’OCSE, dovrebbero essere i Paesi in via di sviluppo. Con riferimento al Pillar 2, il nuovo testo fissa definitivamente l’aliquota minima effettiva al 15%, chiudendo la porta all’ipotetica possibilità di un ritocco al rialzo che era stata lasciata aperta dall’indicazione della precedente versione di “almeno il 15%”. La platea dei soggetti colpiti dalla nuova disciplina è più ampia di quella del primo pilastro e coinvolge i gruppi multinazionali con più di 750 milioni di euro di ricavi annuali. Secondo i calcoli dell’OCSE, le entrate fiscali aggiuntive che dovrebbero prodursi grazie al meccanismo ammonteranno a circa 150 miliardi di dollari ogni anno. Una novità inattesa riguarda alcune multinazionali che non saranno soggette alla regola del Pillar 1 per i primi cinque anni dopo aver raggiunto la soglia di ricavi di 750 milioni di euro (866 milioni di dollari) se le loro attività materiali estere non superano i 50 milioni di euro (57,7 milioni di dollari) e non operano in più di cinque Paesi esteri. Questa modifica soprattutto gli Stati che fanno da culla a cd. “start up” in grado di trasformarsi in pochi anni in grandi imprese (gli USA ad esempio, ma anche Cina e India). I profitti oggetto della minimum tax verranno determinati applicando sui profitti generati nelle singole giurisdizioni un carve out pari al 5% del valore di asset materiali e costo del personale. È tuttavia previsto un articolato regime transitorio: nel primo anno, il carve out ammonterà all'8% del valore di carico delle immobilizzazioni materiali e al 10% della retribuzione. Tali percentuali diminuiranno dello 0,2% ogni anno per i prossimi cinque anni, e dello 0,4% (per le immobilizzazioni materiali) e dello 0,8% (per le buste paga) ogni anno per i successivi cinque anni. Sono esclusi i profitti derivanti da Paesi in cui la multinazionale ha meno di 10 milioni di euro (11,6 milioni di dollari) di ricavi e meno di 1 milione di euro di profitti. L’accordo raggiunto prevede una tabella di marcia in base alla quale nel 2022 si prevede la firma di una convenzione multilaterale. Tale convenzione dopo la ratifica dei singoli Paesi, dovrebbe portare all’entrata in vigore delle diverse parti della soluzione a due pilastri entro il 2023. Il 21 ottobre 2021, un gruppo di sei paesi - Austria, Francia, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti - ha annunciato un "accordo transitorio" per il passaggio dalle attuali imposte sui servizi digitali alla nuova soluzione multilaterale e si sono impegnati a proseguire le discussioni su questo argomento attraverso un dialogo costruttivo. Tale accordo prevede particolari meccanismi di “compensazione” volto a garantire a tali Stati, costituenti market jurisdictions, un ristoro alla perdita di gettito che, nell’immediato, potrebbe conseguire dall’abbandono della digital tax a favore del Pillar 1. Nel corso del G20 di Roma, il 30 ottobre 2021, è stato confermato l’accordo dell’8 ottobre scorso. Alcune osservazioni sono necessarie il merito al nuovo assetto determinato dall’accordo in questione. La circostanza più notevole è rappresentata dall’enorme differenza tra l’ambito applicativo del Pillar 2 rispetto al Pillar 1. Il Pillar 2 trova applicazione, con relativamente poche eccezioni, in relazione a tutte le multinazionali con più di 750 milioni di ricavi annuali. Il secondo invece, oltre a prevedere limiti reddituali piuttosto stringenti, richiede un fatturato superiore ai 20 miliardi di Euro. Anche da ciò consegue il minor gettito derivante, almeno nella fase iniziale, dall’applicazione del Pillar 2 se comparato con quello relativo alla cd. “Web tax”. Ricollegandosi alle considerazioni sopra effettuate, tale differenza tra Pillar 1 e 2 è probabilmente da ricondurre al ruolo assunto dagli Stati Uniti nelle trattative e al differente peso internazionale delle parti in gioco. Da un lato, vi erano infatti gli Stati Uniti, che hanno svolto il ruolo di guida nelle trattative e che erano interessate all’adozione del Pillar 1 (senza particolare interesse all’adozione del Pillar 2, in quanto tale). Dall’altro lato, vi erano l’Unione Europea e i Paesi in via di sviluppo che, in un certo senso, subivano il “peso diplomatico” degli Stati Uniti e per i quali il Pillar 1 rappresentava una compensazione per l’abbandono della cd. “Web tax”. Pillar 2 nell’ambito del diritto internazionale e unionale Si pone il problema di stabilire la compatibilità del Pillar 1 e 2 con il diritto internazionale pattizio e il diritto unionale. Sotto il profilo pattizio, i maggiori problemi sono posti dal Pillar 1. Come accennato, infatti, la maggior parte delle convenzioni internazionali in tema di doppia imposizione subordina la tassazione dell’attività di impresa nello Stato della fonte alla sussistenza di una stabile organizzazione. Il Pillar 1 prescinderebbe da tale requisito. Come tale una disciplina interna che si adeguasse al Pillar 1 entrerebbe in contrasto con la normativa interna di recepimento delle convenzioni contro le doppie imposizioni. Tale disciplina interna potrebbe essere ritenuta illegittima ai sensi dell’art. 117 Cost. La Convenzione multilaterale che si prevede venga stipulata nel 2022 permette ad ogni modo di superare tale questione. Per quanto riguarda, il diritto unionale, si è già accennato al fatto che anche l’Unione Europea convergerà insieme agli Stati Uniti verso l’adozione del Pillar 1 e 2. L’adozione di tali criteri comporterà l’abbandono del progetto relativo ad una Digital service tax europea. Tuttavia, l’adozione di una minimum tax a imprese residenti nell’Unione Europea, comporterà alcune problematiche di compatibilità con il diritto unionale. Infatti, il meccanismo applicativo del Pillar 2 presenti molti punti in comune con il meccanismo di “imputazione per trasparenza” dei redditi delle controllate estere previsto da molti Stati. Di fatto, il Pillar 2 rappresenta una evoluzione della disciplina CFC focalizzata all’attrazione nello Stato di residenza dei ricavi relativi alle attività digitali o comunque alle attività svolte mediante l’impiego rilevante di intangibles ad alto valore facilmente localizzabili in Stati a fiscalità agevolata. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella celebre sentenza del 12 settembre 2006, Causa C-196/04, Cadbury Schweppes ha sancito la legittimità della disciplina CFC nelle sole ipotesi in cui questa colpisca strutture di puro artificio. La minimum tax, così come elaborata all’interno del Pillar 2, colpirebbe tutte le attività estere non soggette a congrua tassazione, a prescindere dall’effettività dell’attività svolta. Sarà interessante notare come la direttiva che verrà emanata al fine di recepire il Pillar 2 affronterà tale tematica. Ad ogni modo, il fatto che, nella sostanza, tutti gli Stati dell’Unione Europea abbiano aderito al Pillar 1 dovrebbe ridimensionare in misura significativa i rischi di frizione con il diritto unionale. Ciò che è certo è che i prossimi mesi vedranno una rapida evoluzione del sistema di tassazione dei redditi delle multinazionali, indotto dal nuovo assetto globale. Ciò richiederà ovviamente anche una importante evoluzione degli apparati amministrativi sia delle imprese che degli Stati per adeguare ai nuovi principi le compliance fiscali. F.N. [1] Cfr. OECD (2020), Tax Challenges Arising from Digitalisation – Report on Pillar One Blueprint: Inclusive Framework on BEPS, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, Paris; OECD (2020). [2] OECD (2020), Tax Challenges Arising from Digitalisation – Report on Pillar Two Blueprint: Inclusive Framework on BEPS, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, 2020, Paris https://doi.org/10.1787/abb4c3d1-en. [3] Per completezza, il Tax Cuts and Jobs Act del 2017 ha previsto la riduzione dell’aliquota societaria al 21%. Inoltre, come detto, sono stati introdotti alcune misure volte a contrastare la localizzazione dei profitti all’estero. In particolare, oltre al GILTI, sono stati introdotte le seguenti misure. - BEAT (cd. «Base erosion and antiabuse tax»); tale rimedio prevede a determinate condizioni l’indeducibilità dei costi (interessi, spese di regia) verso entità estere; - FDII (cd. «Foreign derived intangible income»): tale rimedio prevede a determinate condizioni una deduzione, pari al 37,5%, dei redditi esteri derivanti dall’utilizzo di IP, al di al di sopra di soglia del 10% di rendimento degli asset che li producono; in tal modo, di fatto, il contribuente era “invogliato” a realizzare direttamente redditi esteri che concorressero alla propria base imponibile (beneficiando della deduzione), anziché “convogliarli” mediante veicoli esteri (i cui redditi sarebbero stati soggetti al GILTI). L’esigenza di contrastare il profit shifting era anche determinata dalle rilevantissime disposizioni in tema di tassazione dei dividendi. Fino al 2017, quindi, per le società con sede negli Stati Uniti era in vigore un sistema che prevedeva la tassazione mondiale dei profitti indipendentemente dal luogo dove gli stessi venivano percepiti. Alle imprese veniva successivamente riconosciuto un credito d'imposta per le imposte versate all'estero. Dal primo gennaio 2018, in seguito all'entrata in vigore del Tax Cuts and Jobs Act, è stata prevista la detassazione dei redditi esteri. La riforma ha introdotto infine, una forma di tassazione agevolata per il rimpatrio dei capitali delle imprese prodotti o detenuti all'estero prima della transizione al sistema territoriale. Per completezza, il GILTI è stato oggetto di una pluralità di critiche, tra le quali: a) il carve out riferibile alle attività materiali favorisce l’allocazione all’estero di tali asset; b) l’eventuale sussistenza di un livello di tassazione estero non congruo (al quale l’applicazione del GILTI era subordinata) era valutata “compensando” la tassazione applicata nei diversi Stati (cd. “cross crediting”). [4] Congiuntamente all’innalzamento dell’aliquota societaria è prevista l’abolizione del FDII e l’inasprimento del GILTI merchè l’innnalzamento della base imponibile dello stesso (dal 50% al 75%) e l’eliminazione dell’esenzione riferibile agli asset materiali. L’innalzamento dell’aliquota societaria creerebbe infatti un divario importante tra il livello a cui sono assoggettati i profitti onshore delle imprese USA ed il livello al quale sono assoggettati i profitti delle controllate estere mediante l’applicazione del GILTI (ciò nonostante il fatto che il livello di tassazione effettivo determinato da tale regime passi dal 13,5 al 20%). Peraltro, secondo taluni, il maggior gettito derivante dalla minimum tax, nel caso di effettivo adeguamento di tutti alla aliquota del 15%, potrebbe essere compensato dalla deducibilità dei crediti di imposta, oggi sostanzialmente esclusa dalla GILTI, di cui le multinazionali andrebbero a godere per le proprie attività all’estero, con un saldo finale addirittura deteriore rispetto alle entrate attualmente perseguibili in base alla GILTI stessa.