Contratti di finanziamento bancario e imposta di registro: le clausole di postergazione

Con ordinanza del 2 settembre 2022, n. 25942, la Corte di Cassazione ha sancito che, in un contratto di mutuo, la clausola con la quale la società debitrice si obbliga a postergare il rimborso del finanziamento soci a quello nei confronti della banca non determina enunciazione di una ricognizione di debito. E’ quindi illegittima la prassi dell’Ufficio che tende a tassare queste clausole con imposta proporzionale di registro all’1%.

Il contratto di finanziamento erogato da istituti di credito può scontare due regimi di tassazione alternativi per quanto concerne il registro. Il regime ordinario prevede l’applicazione di un’imposta in misura fissa di 200 euro (a cui può aggiungersi l’aliquota proporzionale dello 0,5% sul valore delle garanzie accessorie al credito). In alternativa, se trattasi di finanziamento a medio-lungo termine, può essere esercitata l’opzione per l’imposta sostitutiva allo 0,25% di cui all’art. 15 d.P.R. 601/73.

In alcuni casi, il contratto di finanziamento contiene una clausola di postergazione di altri debiti a quello contratto nei confronti del soggetto mutuante. Vi è da chiedersi se tale specifica clausola può essere qualificata come una ricognizione di debito a favore degli altri creditori. Il tema si pone in quanto tale ricognizione sarebbe soggetta ad un’aliquota dell’1%. Ciò in base al cd. “principio di enunciazione”. In base a tale principio, come meglio spiegato nel seguito, gli atti non registrati enunciati in atti sottoposti a registrazione possono essere assoggettati a tassazione, laddove intercorrenti tra le medesime parti.

Il caso trattato dall’ordinanza suindicata ha ad oggetto proprio un avviso di liquidazione relativo a tale contestazione, pervenuto all’istituto di credito mutuante in quanto coobbligato al pagamento dell’imposta. Dopo un duplice grado di giudizio di merito, la CTR competente aveva accolto l'appello dell'Agenzia delle Entrate, ritenendo che la clausola fosse stata correttamente qualificata dall'Ufficio come atto ricognitivo di debito.

Investita della questione, la Cassazione ha tuttavia censurato l’operato dei giudici regionali per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, la dichiarazione compiuta dalla società attestante il debito nei confronti dei propri soci non possedeva i requisiti integranti una ricognizione di debito ex art. 1988 c.c.. Infatti “per costante giurisprudenza di questa Corte, la ricognizione di debito al pari della promessa di pagamento, spiega effetti solo se rimessa direttamente dall'obbligato al creditore, senza intermediazioni, e se rimessa con lo specifico intento del primo di ribadire l'esistenza del debito (cfr. Cass. 2104/2012)”. Nel caso di specie l’attestazione del debito nei confronti dei soci è stata resa in un contratto con una parte terza (l’istituto di credito).

Inoltre, la CTR ha errato nell’applicare il principio di enunciazione di cui all’art. 22 del d.P.R. 131/1986. La norma, che stabilisce l’assoggettamento ad imposta di registro delle disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati, opera soltanto a condizione che l’atto enunciante e l’atto enunciato siano stati stipulati tra le stesse parti. Anche in tal caso, la diversità soggettiva intercorrente tra il contratto di finanziamento e la presunta ricognizione di debito ha determinato la fallacia della tesi dell’Agenzia.

Le considerazioni dei giudici di legittimità espresse nell’ordinanza in commento sono ovviamente condivisibili, al punto da ritenere singolare il fatto che l’Ufficio abbia coltivato in giudizio una simile contestazione.

A.P.

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