Con la sentenza n. 1883/2023 la Corte di Cassazione ha affermato che la contestazione di esterovestizione deve declinarsi diversamente in base alla circostanza che la società accertata sia o meno residente in uno Stato dell’Unione Europea: nel primo caso, infatti, l’accertamento deve confrontarsi con l’operatività della libertà di stabilimento, la cui restrizione è ammessa soltanto in relazione a costruzioni di puro artificio; nel secondo caso, invece, per la rettifica della residenza fiscale è sufficiente la sussistenza di uno dei criteri di collegamento con il territorio nazionale individuati dall’art. 73, c. 3, TUIR. Pur nell’ambito di un orientamento ondivago della Suprema Corte sul tema, la pronuncia in esame conferma le conclusioni anticipate da diversi mesi da S. Morri e F. Nicolosi, in Esterovestizione societaria: dalla nozione di abuso del diritto a quella di costruzione artificiosa Nell’ultimo periodo la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del tema dell’esterovestizione. Il caso trattato dalla sentenza n. 1883/2023 riguardava due società, rispettivamente costituite in San Marino e in Svizzera, la cui sede dell’amministrazione veniva individuata, dall’Ufficio, in Italia (precisamente a Bolzano) presso la sede legale di una società terza. Nell’ambito di una verifica fiscale, era stato infatti rilevato che i prodotti commercializzati dalle società accertate (svolgenti meramente attività distributiva) destinati al loro principale cliente venivano stabilmente allocati presso il magazzino di tale soggetto terzo. Sulla scorta di un complesso di elementi indiziari, l’Agenzia riteneva che la sede effettiva delle società non risultasse univocamente determinabile, poiché tenuta occulta o dematerializzata, mentre la sede legale era stata fissata all’estero per mera finalità frodatoria. Dopo due gradi di giudizio di merito negativi per l’Ufficio, la Corte di Cassazione si è innanzitutto pronunciata sulla natura della contestazione avanzata dall’Agenzia. Pur a fronte di recenti pronunce, che hanno alternativamente qualificato l’esterovestizione come fattispecie di natura evasiva ovvero come ipotesi di abuso della libertà di stabilimento – con connessi effetti diversi sul versante dell’onere probatorio incombente sull’Amministrazione – la Suprema Corte ha affermato che “il fenomeno dell’esterovestizione delle società è diversamente considerato dall’ordinamento in base alla circostanza secondo cui la società abbia sede in un paese dell’Unione Europea – ove lo stabilimento in un paese appartenente alla stessa per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa in tal caso solo se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato; da quello in cui invece la sede sia fissata in uno stato terzo – ove ricevono in materia fiscale piena applicazione le disposizioni di cui agli artt. 58 del d.P.R. 600/1973 e 73 del TUIR”. Rilevato che San Marino e Svizzera, gli Stati in cui insisteva la sede legale dei soggetti accertati, non appartengono all’Unione Europea, la Corte ha inteso risolvere la controversia limitandosi all’indagine sulla sussistenza dei criteri di collegamento di cui all’art. 73, c. 3, TUIR. Per l’effetto, ritenendo inconsistenti gli elementi sintomatici della sede dell’amministrazione o dell’oggetto principale in Italia delle due società, i giudici di legittimità hanno confermato la sentenza di secondo grado favorevole al contribuente, non effettuando alcuna indagine su eventuali circostanze dalle quali dedurre l’artificiosità dello stabilimento all’estero e/o la reale attività economica svolta dai soggetti accertati. Al netto delle peculiarità della fattispecie concreta, la pronuncia in esame si fa apprezzare[1] per aver reso palese la linea interpretativa attuata in alcuni celebri arresti della Cassazione sul tema dell’esterovestizione (cfr. ex plurimis Cass. civ., sez. V, 11 febbraio 2022, n. 4463). Come anticipato in premessa, è stato notato che la configurazione dell’esterovestizione in c.d. chiave “elusiva”[2] è stata applicata dalla Cassazione soltanto in riferimento a soggetti che avevano la sede legale nel territorio dell’Unione Europea. Al contrario, laddove la società accertata fosse stabilita in uno Stato terzo, ai fini dell’esterovestizione occorreva meramente dimostrare la sussistenza nel nostro Paese della sede dell’amministrazione o dell’oggetto principale, in mera applicazione dell’art. 73 e senza alcun rilievo sulla consistenza economica del soggetto la cui residenza fiscale veniva attratta in Italia. Perdurando la coesistenza dei suddetti orientamenti – apparentemente tra loro contrastanti – è stato fatto notare che l’operato dei giudici di legittimità rispondeva ad una linea razionale (seppur mai esplicitata) che aveva riguardo all’operatività della libertà di stabilimento nel territorio dell’Unione Europea (vedasi S. Morri – F. Nicolosi, Esterovestizione societaria: dalla nozione di abuso del diritto a quella di costruzione artificiosa, in Riv. dir. trib. on-line, 5 luglio 2022). La sentenza in esame, in forza dell’estratto citato, conferma quindi integralmente questa chiave di lettura. Pur apprezzandosi lo sforzo di ricondurre ad unità le pronunce rese in tema di esterovestizione v’è tuttavia da attestare, in conclusione, che la suddetta chiave di lettura pare non essere condivisa unanimemente in seno alla Suprema Corte: nella recente sentenza 25 novembre 2022, n. 34723 la Cassazione – dopo aver per la prima volta ammesso la coesistenza dei due citati orientamenti – ha ritenuto di dover applicare la tesi “evasiva” dell’esterovestizione (i.e. fondata meramente sui criteri di collegamento ex art. 73) con riguardo ad una società con sede legale in Portogallo. In quella sede i giudici di legittimità hanno affermato che è “artificiosa” tout court la tesi dell’esterovestizione elusiva, seguita nei citati arresti giurisprudenziali, giacché essa sarebbe funzionale soltanto a disinnescare qualsivoglia rettifica della residenza fiscale provando meramente la “non abusività” del soggetto accertato, ovverosia la sua reale consistenza economica (ciò anche allorquando i criteri di collegamento indicati dall’art. 73 inducano manifestamente a ritenere che la sede dell’entità sia in Italia). A.P. [1] Congiuntamente alle ulteriori sentenze Cass. nn. 1875-1879/2023, rese tra gli stessi soggetti ma afferenti ad anni di imposta differenti. [2] Comportante per l’Ufficio l’onere di provare – ai fini della rettifica della residenza fiscale in Italia – la natura artificiosa del soggetto passivo all’estero, l’assenza di effettività economica e la finalità di eludere la normativa fiscale dello stato d’origine.