Società a ristretta base sociale: la presunzione di distribuzione di utili in nero nella delega fiscale

Come noto, secondo la giurisprudenza, nel caso di società di capitali a ristretta base sociale, opera una presunzione secondo cui, laddove l’Ufficio accerti l’esistenza di maggiori utili non contabilizzati, è lecito presumere che tali utili siano stati attribuiti “in nero” ai soci. Per effetto della presunzione, de quo, quindi,il principio della tassazione per trasparenza previsto dall’art. 5 Tuir per le società di persone, si estende alle società di capitali.

I presupposti applicativi della presunzione sono quindi la ristrettezza della base azionaria e l’accertamento in capo alla società di maggior ricavi extracontabili.

È definita a “ristretta base” quella società di capitali costituita da un numero esiguo di soci, generalmente legati da vincoli di parentela o affinità. A parere della Suprema Corte, infatti, dalla ristrettezza della base sociale nonché dal vincolo di complicità che normalmente avvince i membri di una stretta compagine societaria può presumersi che i maggiori utili accertati in capo alla società e da questi non dichiarati, siano stati illegittimamente suddivisi “pro quota” tra i soci.                                                                     La presunzione deriva dunque dalla regola di comune esperienza secondo cui dalla ristrettezza della base discende – secondo l’id quod plorumque accidit – un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di controllo degli stessi. Ciò legittima – anche quando i soci non sono familiari – la presunzione che gli stessi siano edotti degli affari sociali, consapevoli dell’esistenza di utili extrabilancio e che se li distribuiscano in proporzione alle rispettive quote di partecipazione al capitale.[1]

Ad ogni modo, si tratta di una presunzione c.d. relativa che ammette la prova contraria a carico del Contribuente. Il socio può dimostrare di non aver mai percepito l’utile contestato, provando che i maggiori ricavi sono stati accantonati dalla società o in essa reinvestiti. Ovvero, può dimostrare la sua estraneità alla gestione e conduzione societaria, per esempio fornendo in giudizio la prova di aver ricoperto all’interno della società un ruolo meramente formale di semplice intestatario di quote sociali[2]. Infine, potrebbe provare che i presunti maggiori ricavi erano stati utilizzati esclusivamente dagli altri soci.[3]

La presunzione in esame è stata oggetto di una pluralità di critiche in dottrina.

Il ricorso a tale schema è stato da sempre osteggiato in dottrina, sul presupposto che sarebbe violato il c.d. divieto di doppia presunzione. Ciò nonostante, la Cassazione ha nel tempo ribadito che il fatto noto della distribuzione degli utili in capo ai soci, non sarebbe dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, ma dalla ristrettezza dell’assetto partecipativo, che – come detto – implica un vincolo di solidarietà e controllo dei soci nella gestione sociale.

Inoltre, si osserva come la dottrina abbia sempre evidenziato come in capo al socio bisognerebbe tassare solo il maggior reddito distribuito per presunzione, pari al maggior reddito accertato sulla società al netto delle imposte che sullo stesso la società è stata chiamata a pagare[4]. Invece, in giurisprudenza è consolidato l’orientamento secondo cui “trattandosi di ricavi extracontabili, nessun pagamento di imposte è ipotizzabile al riguardo” e comunque non si configura un caso di doppia imposizione sullo stesso reddito stante la diversità dei soggetti debitori.[5]

Secondo la Corte di Cassazione, peraltro, la presunzione può operare anche rispetto a costi esistenti ma non inerenti.

Anche tale conclusione è stata oggetto di una vivace critica.

Si è detto, infatti, che la presunzione dovrebbe poter operare solo con riferimento ai maggiori ricavi conseguenti a costi oggettivamente non esistenti (cioè non sostenuti dalla società) e non anche rispetto a costi non inerenti o non deducibili. In tali ultimi casi, difetterebbe la base stessa della presunzione: la provvista finanziaria “occulta” trasferita ai soci.

Di tale criticità sembra aver preso atto la recente proposta di legge delega, approvata dal Consiglio dei Ministri. Nella proposta, infatti, sono stati individuati i criteri direttivi necessari affinché il Governo adotti le misure necessarie per garantire “la limitazione della possibilità di presumere la distribuzione ai soci del reddito accertato nei riguardi delle società di capitali a ristretta base partecipativa ai soli casi in cui è accertata, sulla base di elementi certi e precisi, l’esistenza di componenti reddituali positivi non contabilizzati o di componenti negativi inesistenti, ferma restando la medesima natura di reddito finanziario conseguito dai predetti soci”.

Se confermata tale indicazione, dunque, il disconoscimento dei costi da parte dell’Amministrazione finanziaria dovrà essere limitato solamente a quei costi oggettivamente inesistenti, ossia mai sostenuti dalla società. Non rilevando a tali fini, i costi effettivamente sostenuti dalla società ma non deducibili per disposizione di legge.

Rimane da chiarire, peraltro, il trattamento dei costi che, oltre a non essere inerenti, siano andati a vantaggio diretto dei soci. In tale ipotesi, si verificherebbero, a ben vedere, entrambi i presupposti per l’applicazione della presunzione in esame, sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione: a) la formazione di una provvista “occulta” (data dai maggiori utili dati dal minore onere fiscali derivante dai costi non dedotti); b) l’arricchimento dei soci in ragione di un’attribuzione latu sensu assimilabile ad un dividendo in natura. Sarebbe opportuno che il legislatore delegato si facesse carico di disciplinare anche tale fattispecie.

Inoltre, vale la pena evidenziare la rilevanza che l’introduzione del nuovo comma 5-bis all’art. 7, del Dlgs. n. 546/92 sul riparto dell’onere probatorio ha rispetto alla presunzione in commento. È oggi disposto infatti che “l’Amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate”; il giudice dovrà quindi annullare l’atto impositivo ogni qual volta “la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale (…) le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva…”. Il Governo, quindi, nel regolare l’introduzione della presunzione legale sulla distribuzione degli utili extracontabili ai soci dovrà tener conto che non è più consentito all’Ufficio invocare una generica “comune esperienza” per fondare la pretesa impositiva in capo al socio, la quale dovrà essere suffragata da elementi concreti sulla cui base le somme che si presumono sottratte a imposizione da parte della società siano poi confluite ai soci. In caso contrario, il giudice sarà “costretto” ad annullare l’atto impositivo.

G.G.


[1] Ex multis: Cass. n. 1932/2016

[2] Cass. n. 27445/2020

[3] CTP Treviso, 24 giugno 2010, n. 71/6/10

[4] Norma di comportamento AIDC n. 198 del 26 giugno 2017

[5] Cass. n. 3307/2022; Cass. n. 10270/2011; Cass. n. 16885/2003

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