I certificati di residenza fiscale rivestono un ruolo dirimente nel contesto internazionale per garantire l’applicabilità dei benefici previsti dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni. Sebbene tali certificati rilasciati dalle autorità fiscali dei diversi Stati rappresentino una prova significativa nella definizione della residenza fiscale, la giurisprudenza nazionale non ne ha ancora definitivamente sancito la valenza vincolante. La questione della residenza fiscale delle persone giuridiche costituisce uno snodo fondamentale nel diritto tributario internazionale, specie in relazione ai fenomeni elusivi connessi all’esterovestizione e alla qualificazione di beneficiario effettivo. In tale contesto, si pone la questione del valore da attribuire ai certificati fiscali esteri rilasciati da amministrazioni straniere, i quali attestano la residenza fiscale in un diverso ordinamento rispetto a quello italiano. In particolare, occorre interrogarsi sull’efficacia probatoria di tali certificazioni ai fini dell’accertamento dell’effettiva residenza fiscale, in un quadro in cui convivono fonti nazionali, prassi amministrative e interpretazioni giurisprudenziali consolidate. Il punto di partenza è costituito dalla normativa interna, il cui novellato articolo 73, co. 3, del TUIR – stabilendo che si considerano fiscalmente residenti in Italia le società e gli enti, aventi o meno personalità giuridica, che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale nel territorio dello Stato – denota un approccio sostanzialistico, basato sulla realtà effettiva dell’attività societaria, volto a contrastare fenomeni di localizzazione meramente formale all’estero di entità giuridiche che in realtà operano, sono gestite o producono valore sul territorio italiano. In tal senso, la norma non menziona, quale criterio probatorio, la presentazione di certificati fiscali esteri che, tuttavia, si rinviene negli artt. all’art. 26-quater e 27-bis del D.P.R. 600/73 dedicati, rispettivamente, alla disciplina sull’esenzione da ritenuta per interessi e royalties e nella disciplina sul rimborso della ritenuta sui dividendi distribuiti a soggetti non residenti. Per altro verso, sul piano convenzionale tali certificazioni sono previste in numerose convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, quale condizione per accedere ai benefici convenzionali[1]. In questo senso si pone il problema della valenza probatoria di tali certificati. Parte della giurisprudenza di merito[2] si è espressa in senso restrittivo, con riguardo alla qualificazione di beneficiario effettivo, nel senso che l’onere probatorio non può essere assolto dalla mera produzione del certificato di residenza emesso dalle autorità fiscali estere, né da altra documentazione da cui non possa ricavarsi la sussistenza delle condizioni richieste dalla disciplina convenzionale. Pertanto, l’interpretazione formalistica, che limita l’accertamento alla verifica della sussistenza della certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero, deve ritenersi del tutto inadeguata. Di converso, la giurisprudenza sia di merito che di legittimità maggioritarie, sono di avviso contrario. Esemplari sono diverse pronunce di merito relative sia alla verifica del requisito di beneficiario effettivo, sia di esterovestizione, che attribuiscono valenza probatoria vincolante ai certificati emessi dalle autorità fiscali straniere, ben potendo, il certificato, essere ritenuto documento di prova idoneo a godere dei benefici convenzionali[3]. Ed ancora, “quando nelle certificazioni, viene confermata la presenza dei requisiti per l’applicazione della convenzione l’Ufficio non può mettere in discussione l’autenticità dell’attestazione e se intendesse farlo, dovrebbe in primo luogo chiedere chiarimenti al corrispondente organo (del fisco straniero)“[4] . L’orientamento delle corti di merito è stato avallato dalla Cassazione la quale ha stabilito che una valida prova dell’effettiva residenza all’estero della società possa rinvenirsi nella certificazione rilasciata dall’Autorità fiscale del paese di insediamento attestante la sua residenza in detto Stato[5]. In tal senso viene anche richiamato il disposto dell’art. 4 della Convenzione OCSE che prevede la liability to tax quale criterio di definizione di residenza che designa ogni persona assoggettata a imposta in virtù della legislazione dello Stato di appartenenza (“is liable to tax“). La Cassazione afferma, quindi, che il certificato di residenza fiscale rilasciato dall’autorità fiscale dello Stato estero costituisce prova sufficiente per attestare la sussistenza delle condizioni richieste dalle Convenzioni. La Suprema Corte richiama anche l’orientamento dell’Agenzia che prevede che “L’autorità fiscale del Paese di residenza del beneficiario del reddito può rilasciare l’Attestato di residenza fiscale utilizzando una propria modulistica da allegare alla domanda di rimborso o di applicazione diretta dell’esonero o dell’aliquota convenzionale”.[6] Ed ancora, è possibile ritenere la validità probatoria vincolante dei certificati anche sulla base del principio di mutuo riconoscimento (art. 53 TFUE) e leale cooperazione (art. 4 TUE) di matrice Europea che rispettivamente stabiliscono “al fine di agevolare l’accesso alle attività autonome e l’esercizio di queste, il Parlamento europeo e il Consiglio… stabiliscono direttive intese al reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli e al coordinamento delle disposizioni legislative‚ regolamentari e amministrative degli Stati membri” e “in virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati e.. si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione”. In base ai principi fondamentali dell’UE, pertanto, tali certificati devono essere riconosciuti senza che l’amministrazione fiscale nazionale possa disconoscerne il contenuto in assenza di riscontri tramite le procedure di assistenza amministrativa previste dalla direttiva 77/799/CEE (oggi Direttiva 2011/16/UE). Va da sé che la stessa amministrazione, nel decidere di disconoscere la validità dei certificati esteri in assenza di attivazione della procedura di cooperazione tra Stati, opererebbe in violazione dei Trattati[7]. Giova, da ultimo, richiamare la Risoluzione n. 167 del 2008, nella quale l’Agenzia ha affermato che per provare la qualifica di beneficiario effettivo è necessario produrre un’attestazione dell’autorità fiscale competente dello Stato ove l’effettivo beneficiario degli utili ha la residenza, dalla quale risulti la residenza nello Stato medesimo ai sensi della convenzione. In definitiva, sebbene permangano orientamenti giurisprudenziali disallineati, l’evoluzione normativa, l’interpretazione maggioritaria dei giudici e la stessa prassi amministrativa interna sembrano convergere verso il riconoscimento di un’efficacia probatoria qualificata ai certificati di residenza fiscale esteri, soprattutto quando rilasciati da autorità competenti secondo i criteri convenzionali. In un contesto sempre più improntato alla cooperazione amministrativa e al reciproco riconoscimento tra ordinamenti, negare valore a tali attestazioni significherebbe compromettere l’affidamento legittimo degli operatori economici e svuotare di contenuto gli obblighi assunti in sede convenzionale. A.M. e D.R. [1] L’Agenzia delle Entrate, inoltre, con provvedimento del 10 luglio 2013, a seguito dell’entrata in vigore delle direttive Madre-figlia e Interessi e canoni, ha elaborato dei modelli “universali” di domanda di rimborso, esonero dall’imposta italiana o applicazione dell’aliquota ridotta, specificamente per i soggetti non residenti che desiderano avvalersi dei benefici fiscali previsti dalle convenzioni internazionali. Tali modelli sono essenziali, inoltre, per fornire la prova di residenza estera. Tuttavia, si tratta di documenti non concordati con le Autorità fiscali estere, fatta eccezione per i modelli già in vigore presenti per Germania, Portogallo, Regno Unito, Stati Uniti, Svezia e Svizzera. Merita segnalare che la stessa Agenzia delle Entrate nelle FAQ ha chiarito che i modelli predisposti non sono vincolanti, ben potendo l’Autorità fiscale dello Stato di residenza del beneficiario, rilasciare l’attestato di residenza fiscale mediante propria modulistica purché attesti la residenza del beneficiario ai sensi della pertinente norma convenzionale nel periodo d’imposta ovvero alla data di rilascio dell’Attestato. [2] Cfr. CTP di Milano, sentenza n. 4820/2019. [3] Cfr. tra le tante CTR Abruzzo, sentenza n. 154/2009; CTR Lombardia sentenza n. 3435/36/14; CTR Lombardia, sentenza n. 2897/2015; CTR Piemonte, sentenza n. 28/2012; CTP Milano, sentenza n. 9819/2015. [4] CTR Abruzzo, sentenza n. 228/2010. [5] Cass., sentenza n. 1553/2012. [6] Cass., sentenza n. 28881/2024. [7] Ctp Milano, sentenza n. 6814/14/2017; Circolare n. 32/E/2011.