L’annullamento di azioni proprie previo acquisto delle stesse non equivale a recesso se è passato del tempo

Con la sentenza emessa in data 25 febbraio 2022, n. 653, la Commissione Tributaria Regionale (“CTR”) della Lombardia ha censurato l’attività dell’Agenzia delle Entrate, che aveva riqualificato un’operazione di acquisto di azioni proprie e successivo annullamento delle stesse da parte della società in termini di recesso del socio.

La vicenda trae origine dalla notifica ad una società di un avviso di accertamento per l’anno di imposta 2014, con il quale si contestava l’omessa esecuzione e l’omesso versamento di ritenute alla fonte su emolumenti versati a favore di un ex socio.

Questi, infatti, nell’anno 2011, aveva ceduto a fronte di un ingente corrispettivo la propria partecipazione (pari al 20% del relativo capitale sociale), alla società contribuente. Quest’ultima, in sede di relazione illustrativa allegata al bilancio, aveva motivato l’acquisto delle proprie azioni sul presupposto che l’investimento fosse “finalizzato a valutare la possibilità di creare partnership importanti mediante scambi di partecipazioni”. Nondimeno, nell’anno 2018, la società aveva deliberato:

i) la riduzione del capitale sociale mediante annullamento delle azioni acquistate dall’ex socio;

ii) l’aumento gratuito del capitale sociale mediante aumento del valore nominale delle azioni da €1 a €1,25, sì da riportare il valore del capitale sociale al livello originario.

Con l’atto impositivo notificato, l’Ufficio riqualificava l’acquisto delle azioni e le successive operazioni sul capitale sociale alla stregua di un recesso del socio. Più in particolare, affermava che la società avesse omesso di operare come sostituto d’imposta in relazione alle somme versate all’ex socio in sede di recesso, le quali si configuravano come redditi di capitale ai sensi dell’art. 47, c. 7, TUIR[1]. In ragione di tale riqualificazione della fattispecie, l’Ufficio recuperava presso la società, nonché presso l’ex socio in qualità di coobbligato in solido[2], la ritenuta al 26%[3] non applicata su tali redditi.

A fronte dell’impugnazione dell’atto impositivo, il giudizio dinanzi alla competente Commissione Tributaria Provinciale si concludeva con l’accoglimento del ricorso presentato dalla società. Contro la sentenza di primo grado, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso alla CTR.

La CTR, nondimeno, rigetta l’appello proposto dall’Ufficio.

Secondo i giudici, le operazioni condotte non integrano alcune delle ipotesi di recesso previste dall’art. 2437 c.c.; né può parlarsi di recesso convenzionale, difettandosi di un’espressa previsione in tal senso da parte dello Statuto sociale.

Se tanto bastava ad escludere la sussistenza di presupposti formali perché si possa configurare un’ipotesi di recesso, è allo stesso modo da rigettare la tesi del comportamento elusivo attuato dai soggetti coinvolti. Infatti, secondo la CTR, le operazioni (acquisto di azioni proprie e attività sul capitale sociale) sono state condotte con passaggi regolarmente attuati e ad una distanza temporale (ben 7 anni) tale da non poter generare sospetti su una preordinazione dell’elusione fiscale.

La soluzione a cui i giudici regionali sono pervenuti appare certamente condivisibile. In estrema sintesi, ciò che nel caso trattato ha consentito di sconfessare la tesi erariale è stato principalmente l’elemento temporale, logicamente incompatibile con una predeterminazione degli effetti della prima operazione posta in essere dalle parti (l’acquisto di azioni proprie).

Per completezza, il tema delle circostanze che depongono a favore dell’eventuale qualificazione come reddito diverso anziché di capitale era stato già esaminato dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli nella sentenza del 13 marzo 2014 n. 6551. In tale sentenza, molto commentata dagli operatori, i giudici di merito avevano riconosciuto la natura di reddito diverso agli importi in questione sulla base del fatto che l’annullamento delle azioni:

  • era stato effettuato in epoca successiva (e quindi non contestuale) all’acquisto delle azioni;
  • riguardava un numero di azioni diverso (nel caso di specie, maggiore) di quelle oggetto di recesso;
  • era avvenuto in un contesto in cui la società, alla data dell’annullamento delle azioni proprie, disponeva delle riserve necessarie per l’acquisto delle azioni dei soci recedenti.

Rimane da chiedersi quale potrebbe essere la reazione dei giudici in fattispecie laddove, pur in assenza dei suddetti elementi, permangano ragioni organizzative qualificabili come non marginali.

La questione può assumere rilievo anche con riferimento a contestazioni diverse (ad esempio laddove l’Ufficio contesti la non efficacia della rivalutazione in caso di recesso atipico).

Al riguardo, pur non potendosi prevedere gli sviluppo della giurisprudenza, si segnala che, allo stato attuale, sono molte sentenze favorevoli al contribuente (cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Padova, sent. 20 febbraio 2020, n. 58; cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza, sent. 12 ottobre 2017, n. 69; CTR del Veneto, sent. 4 gennaio 2021, n. 30).

A.P.


[1] Alla stregua della norma “le somme o il valore normale dei beni ricevuti dai soci in caso di recesso (…) costituiscono utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate”.

[2] Ai sensi dell’art. 35 del DPR 602/1973.

[3] La ritenuta è disciplinata dall’art. 27, c. 1, del DPR 600/1973.

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