Il fiorire di clausole antiabuso a livello internazionale ed europeo rappresenta un nodo cruciale nel bilanciamento tra lotta all’elusione fiscale e tutela della certezza del diritto tributario. Sebbene tali clausole rappresentino un chiaro segnale di un’evoluzione normativa volta a contrastare pratiche elusive aggressive, sollevano anche importanti interrogativi di natura giuridica e pratica. La loro formulazione ampia e spesso generica rischia di alimentare incertezze interpretative, complicandone l’applicazione coerente da parte dell’amministrazione finanziaria. Il tema dell’abuso del diritto in ambito fiscale – positivizzato in norme ad hoc – ha origini relativamente recenti; tuttavia, il dibattito sul contrasto a pratiche fiscali dannose perdura da anni ed è di matrice squisitamente giurisprudenziale. In tal senso, famose sono le due sentenze – leading cases del diritto tributario – Halifax[1] e Cadbury Schweppes,[2] grazie alle quali la Corte di Giustizia UE ha plasmato la nozione di abuso del diritto, dapprima con riferimento all’IVA, per poi estenderne il campo di applicazione, con la seconda decisione, alle imposte dirette. Tratto comune delle due pronunce è la definizione autonoma di abuso del diritto che viene a caratterizzarsi di due direttrici specifiche: i) la prima riguarda lo scopo essenziale delle operazioni – nonostante il rispetto formale delle norme e delle condizioni della legislazione nazionale – connotato dall’ottenimento di un vantaggio fiscale indebito la cui concessione è contraria alle norme unionali e ii) l’assenza di una valida ragione economica diversa dall’ottenimento di un vantaggio indebito. Sulla scia di questo orientamento, anche la Corte di Cassazione, in ambito domestico, ha ripreso alla lettera il dictum della Corte di Giustizia UE osservando (prima dell’introduzione dell’art. 10-bis nello Statuto dei diritti del contribuente) che “pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale”[3]. In tal senso, quindi, i supremi giudici giungono a ritenere che – sebbene non formalizzato – l’abuso del diritto abbia una sua autonoma valenza di matrice europea. In definitiva, tale principio altro non è che una clausola generale del diritto che fornisce indicazioni generiche ed indeterminate da applicare e valutare caso per caso. Da ciò le varie critiche succedutesi in punto di eccessiva libertà lasciata all’interprete nell’applicazione del principio. L’introduzione, da parte del D.lgs. 128/2015, dell’art. 10-bis nella L. 212/2000 (prima, quindi, dell’adozione della Direttiva 2016/1164/UE c.d. ATAD), non ha risolto il problema; il legislatore si è limitato a recepire nell’ordinamento domestico il principio statuito a livello giurisprudenziale, sebbene siano state meglio definite le nozioni di “vantaggio fiscale indebito” e “valide ragioni economiche”, oltre che il procedimento di attuazione con particolare riguardo al contraddittorio, all’onere della prova e all’obbligo di motivazione rafforzata (aspetti assenti qualora si invochino le clausole contenute nelle convenzioni o negli atti europei). Tali migliorie, tuttavia, non hanno fatto venire meno il carattere indeterminato del dispositivo che, per essere attuato, necessita ancora di una importante componente interpretativa da parte dell’autorità fiscale e del giudice, soprattutto nel caso in cui si debba valutare la presenza di valide ragioni extrafiscali non marginali (comma 3) per far venir meno il carattere di abusività. E non stupisce quindi che, nell’intento di contrastare pratiche commerciali scorrette a livello europeo, la formulazione coniata dalla Corte di Giustizia UE sia stata trasferita a livello normativo nei paragrafi 2 e 3 dell’art. 1 della direttiva Madre-Figlia, come introdotti dalla Direttiva 2015/121/UE. Di rilievo, poi, è stata l’adozione della Direttiva ATAD 1[4] – Anti Tax Avoidance Directive che, a seguito degli impulsi internazionali dell’OCSE e del progetto BEPS, ha previsto, all’art. 6, che ciascuno Stato membro dovesse dotarsi di apposite norme volte a contrastare i fenomeni di abuso del diritto. Si tratta della General Anti-Avoidance Rule (GAAR)[5] la cui formulazione generale fa riferimento a costruzioni non genuine (avendo riguardo a fatti e circostanze pertinenti), ossia poste in essere in assenza di valide ragioni economiche e allo scopo principale di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità del diritto fiscale applicabile. La criticità intrinseca dei menzionati provvedimenti normativi attiene alla loro formulazione elastica e indeterminata, che porta ad attribuire alle norme una portata prescrittiva che varia in base alle differenti casistiche e la cui applicazione concreta non può prescindere da una valutazione soggettiva da parte dell’autorità fiscale, prima, e del giudice, poi. Ed ancora, sempre sulla scia del progetto BEPS (Azione 6), anche il nuovo Modello OCSE del 2017 prevede, all’art. 29, co. 9[6], una clausola generale che consente di non applicare i benefici derivanti dalle convenzioni laddove il conseguimento del beneficio sia uno degli scopi principali di qualsiasi intesa o transazione che ha portato direttamente o indirettamente a tale beneficio (Principle Purpose Test). La differenza tra la portata normativa convenzionale e quella domestica è chiara: la clausola convenzionale sembra allargare le maglie dell’abuso anche a quelle situazioni in cui – diversamente da quanto previsto all’art. 10-bis che richiede la presenza di un vantaggio fiscale non supportato da effetti extrafiscali significativi – il vantaggio in questione sia anche solo uno degli scopi dell’operazione e, cioè, anche laddove i significativi effetti extrafiscali siano prevalenti. Su tale assunto, infatti, si è mossa la Commissione europea nell’intento di riallineare la disposizione convenzionale con la nozione di abuso come trasposta a livello normativo (direttiva ATAD). Ed infatti, per mitigare l’eccessivo allargamento dell’ambito applicativo, è stato aggiunto l’inciso “a meno che non sia possibile accertare che esso è il frutto di una attività economica reale o che la concessione del beneficio in parola è conforme all’oggetto e alle finalità delle pertinenti disposizioni della Convenzione”. Ad oggi, infatti, la Corte di Giustizia, per sindacare l’abuso del diritto fa leva anche – e soprattutto – sul requisito della costruzione artificiosa (non genuina). La presenza delle norme volte a contrastare l’abuso del diritto nelle diverse imposte considerate e per attenuare i fenomeni di treaty shopping e directive shopping, hanno il pregio di aver recepito un orientamento giurisprudenziale importante. Tuttavia, permangono due criticità di fondo circa il metodo adottato. In primis, una sorta di ribaltamento dell’ordine di formazione delle regole, simile a quello vigente negli ordinamenti di common law, in cui è la giurisprudenza a scrivere le norme. Ed infatti, riconoscere che in Italia e in Europa l’abuso del diritto ha fonte giurisprudenziale significa fortemente ridimensionare il ruolo del legislatore che dovrebbe imporre le norme “dall’alto” quale espressione diretta della sovranità popolare ed in coerenza con il principio democratico, delegando di fatto tale compito all’autorità giudiziaria, la quale finisce per dettare regole sostanzialmente vincolanti, pur non essendo – nei sistemi di civil law – legittimata sul piano ordinamentale a esercitare una funzione normativa. In secondo luogo, aspetto comune a tutti i provvedimenti sopra richiamati, è la tecnica di utilizzo del principio generale che crea una circolarità applicativa: in tal senso, l’autorità fiscale e/o il giudice sono chiamati a ricostruire, prima, la portata del principio attribuendo (in via interpretativa) un significato a quei termini connotati da vaghezza e indeterminatezza, per poi applicare tali assunti al caso concreto per valutare gli effetti prodotti. L’effetto circolare deriverebbe, quindi, dall’auto-legittimazione del potere interpretativo, dal momento che la portata della clausola generale da applicare al caso concreto dipende dallo stesso soggetto che deve applicare tale fonte alla specifica fattispecie. In un contesto sempre più variegato e all’avanguardia è sicuramente difficile pensare a dei parametri inamovibili per la valutazione delle operazioni societarie per le quali norme “aperte” possono essere il terreno fertile per il contrasto a fenomeni abusivi; tuttavia, non deve per ciò solo essere superata la certezza del diritto e la tutela del contribuente tipici dello stato di diritto. A.M. D.R. [1] Corte di Giustizia UE, C-255/2002 nella quale i giudici europei hanno negato la detrazione dell’IVA assolta a monte in quanto l’operazione posta in essere a fondamento del suddetto diritto integrava abuso del diritto. [2] Corte di Giustizia UE, C-196/2004 nella quale i giudici si sono espressi nel senso che la limitazione alla libertà di stabilimento prevista dai trattati UE è ammessa solo laddove siano integrate costruzioni di puro artificio che abbiano il precipuo scopo di eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta. [3] Cfr. Cass. n. 10353/2006; Cass. n. 21221/2006; Cass. N. 8772/2008. [4] Cui ha fatto seguito la Direttiva 2017/952/UE, c.d. ATAD 2. [5] Quanto previsto nella direttiva non è stato poi trasposto a livello domestico. La ragione è che l’art. 10-bis era preesistente all’adozione della menzionata direttiva ed è stato ritenuto compatibile con le previsioni dell’art. 6. [6] A titolo esemplificativo, la Convenzione Italia-Cina ratificata con la L. 182/2024 prevede la clausola del Principle Purpose Test all’art. 24.