Riporto delle perdite in caso di fusione: il test del patrimonio netto in caso di ricapitalizzazione della società

L’art. 172, c. 7, del TUIR consente il riporto dei tax attributes delle società coinvolte nella fusione, a favore della beneficiaria, entro il limite quantitativo del relativo patrimonio netto, sterilizzato dai conferimenti e versamenti effettuati nei 24 mesi precedenti all’operazione straordinaria. La ratio della norma è dichiaratamente anti-elusiva, in quanto finalizzata ad evitare la compensazione intersoggettiva delle perdite attraverso la fusione con “bare fiscali”. La decurtazione dal PN dai conferimenti dev’essere comunque effettuata se la ricapitalizzazione di una delle società coinvolte è stata un “atto dovuto” a causa della riduzione del capitale al di sotto del limite legale? 

La questione attiene alla possibilità per il contribuente di evitare la presentazione dell’interpello disapplicativo di cui all’art. 11, comma 2, della legge 212/2000 (Statuto del contribuente) nel caso in cui il c.d. test del patrimonio netto non risulti superato proprio perché decurtato da quei conferimenti che, in virtù di quanto previsto dall’art. 2447 c.c., sono obbligatori: pena la trasformazione della società o finanche il suo scioglimento[1].

Una risposta ragionevole dovrebbe essere quella per cui, in tali casi, la documentata crisi patrimoniale della società, valutata in uno con la ragione “legale” posta a base della ricapitalizzazione, dovrebbero di per sé escludere l’effetto abusivo che la norma è preordinata ad evitare. Quindi, senza che il contribuente sia obbligato ad interpellare l’Amministrazione finanziaria, incorrendo in aggravi burocratici e costi per la consulenza.

Tuttavia, tale conclusione non pare essere supportata dalla giurisprudenza, né tantomeno dalla prassi erariale.

Costituisce ancora caso emblematico quello trattato dalla sentenza della Corte di cassazione 22 dicembre 2016, n. 26697. La vicenda originava da un avviso di accertamento con cui venivano recuperate a tassazione le perdite fiscali portate in dote alla fusione oltre il quantum del patrimonio netto della società incorporante. I primi due gradi di giudizio di merito si concludevano positivamente per la contribuente, giacchè, come sostenuto dai giudici d’appello “i versamenti non si ponevano in contrasto con le finalità antielusive perseguite dall'art. 123, comma 5, [ora, art. 172, c. 7] del TUIR, in quanto effettuati allo scopo di ricostituire il capitale sociale a seguito di perdite, costituente atto dovuto ai sensi dell'art. 2447 c.c.”. La Corte di legittimità, investita della questione su ricorso di parte erariale, ha tuttavia assunto un approccio molto rigido; controvertendo il verdetto di secondo grado ha infatti affermato che “il contenuto assolutamente chiaro di tale disposizione, laddove prevede che le perdite conseguite dalle società partecipanti alla fusione sono riportabili nel limite del patrimonio netto delle stesse, ma al netto dei versamenti effettuati dai soci nei ventiquattro mesi precedenti la data della situazione patrimoniale di riferimento non consente di ravvisare deroghe o condizioni di operatività diverse da quelle in essa previste, cosicchè deve ritenersi contraria a diritto la disapplicazione fattane dalla Commissione di appello sul presupposto, peraltro anch'esso erroneo, che "la ricostituzione del capitale sociale, a seguito di perdite è un atto dovuto ai sensi dell'art. 2447 c.c.". A smentire tale assunto, infatti, è sufficiente osservare che la citata disposizione civilistica consente all'assemblea dei soci, in caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale, di deliberare "la riduzione del capitale ed il contestuale aumento ad una cifra non inferiore al minimo legale o la trasformazione della società", e, quindi, non necessariamente la ricapitalizzazione della società o la fusione per incorporazione in un'altra società il cui proprio patrimonio netto sia in grado di assorbire le perdite evidenziate dall'incorporanda. In tale ultima ipotesi, la società incorporante sarà quindi tenuta a valutare la convenienza dell'operazione straordinaria”.

Le stesse questioni sono state successivamente trattate dalla sentenza Cass. 17 luglio 2019, n. 19222, questa volta con verdetto favorevole al contribuente. Tuttavia, la circostanza per cui la sentenza di secondo grado (che aveva avvallato la tesi erariale sulla ripresa a tassazione delle perdite riportate alla società risultante dalla fusione) sia stata cassata per insufficienza della motivazione non permette di rilevare un revirement dell’orientamento giurisprudenziale. Non aiuta inoltre in tal senso il fatto che un recente arresto di legittimità (Cass. 28 giugno 2022, n. 20616), occupandosi di un illegittimo riporto di perdite in sede di fusione per mancato superamento del test di vitalità, abbia confermato nel corso di un obiter dictum che il limite patrimoniale in argomento non presenta “deroghe o condizioni di operatività diverse da quelle stabilite, non essendo, peraltro, la ricostituzione del capitale sociale un atto dovuto ai sensi dell'art. 2447 c.c.”.

Stanti queste indicazioni, è doveroso concludere che in situazioni come quelle accennate l’interpello disapplicativo è sempre obbligatorio. Dovrà quindi essere sempre l’Agenzia delle entrate, in via preventiva al riporto delle perdite in dichiarazione della società risultante dalla fusione, a dover conferire un placet all’operazione.

Così come è avvenuto con la risposta ad interpello n. 109/2018. Anche nel caso in essa trattato ad indurre la ricapitalizzazione “da sterilizzare” era stata la “incombenza civilistica di ripianare le perdite superiori al terzo del capitale sociale, oltre che […] la necessità di onorare i debiti pregressi”. Tuttavia, l’Amministrazione finanziaria ha da sé ritenuto che “nella situazione in esame […] i conferimenti descritti non sembrano essere riconducibili all’intento elusivo di incrementare artatamente il patrimonio della società interessata, allo scopo di utilizzare in compensazione un maggior ammontare di perdite pregresse”. Sulla scorta di tale conclusione è stata concessa la disapplicazione del limite patrimoniale al riporto delle perdite, addirittura osservando che la ricapitalizzazione aveva avuto un effetto benefico sull’operatività delle società coinvolte che grazie ad essa avevano estinto i relativi debiti (“l’estinzione dei finanziamenti ha, anche, contribuito al miglioramento dei risultati economici della ALFA, che sosteneva ingenti oneri finanziari […] e di BETA, anch’essa gravata da una struttura del capitale fortemente sbilanciata verso i finanziamenti”).

Sebbene l’Agenzia delle entrate si guardi bene dall’affermare che la ricapitalizzazione rappresenti “un atto dovuto”, la relativa facilità con la quale ha affermato l’irrilevanza dei conferimenti nel caso appena analizzato palesa una criticità del sistema. Di certo non può trascurarsi la stranezza di un orientamento giurisprudenziale rigido, eccessivamente ancorato al dato letterale della norma e che non sia in grado di valorizzare “a posteriori” ciò che invece l’Amministrazione finanziaria può immediatamente rilevare come fattore non abusivo. Il risultato di tale distonia tuttavia pesa, come anticipato, sui contribuenti, tenuti ad aggravi e costi per farsi autorizzare dall’Ufficio, con istanza di interpello, in situazioni che sarebbero ictu oculi fisiologiche. Il tutto con la ragionevole certezza che, in assenza di tale passaggio amministrativo, il riporto delle perdite, in caso di accertamento, sarebbe censurato dalla giurisprudenza.

Nel contesto appena delineato una nota positiva è rappresentata dal progetto di riforma fiscale oggi in corso, il quale si propone una rimodulazione del test del patrimonio netto di cui all’art. 172, c. 7, del TUIR. Recita infatti la relazione illustrativa alla legge delega (L. n. 111/2023) che “è stata, infine, prevista la revisione del limite quantitativo rappresentato dal valore del patrimonio netto, oramai anacronistico e non più idoneo a garantire il raggiungimento della finalità che la norma si propone”.

A.P.


[1] La disciplina civilistica prevede infatti che “se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dall'articolo 2327, gli amministratori o il consiglio di gestione e, in caso di loro inerzia, il consiglio di sorveglianza devono senza indugio convocare l'assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società”.

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